Sempre della serie “che significa essere un paese in crisi fiscale“, forse non tutti sanno che nel “decreto del fare” licenziato nei giorni scorsi dal consiglio dei ministri e pubblicato in Gazzetta Ufficiale, sono presenti inasprimenti di imposta in quantità modica ma neppure tanto.
Ad esempio, è previsto un aumento dell’aliquota delle accise su benzina e gasolio per autotrazione, che è atteso produrre nel 2014 un gettito di 75 milioni di euro. Per questa misura è previsto il rimborso dell’aggravio a favore dei trasporti pubblici locali e degli autotrasportatori, che effettivamente si sarebbero potuti risentire in caso contrario, eufemisticamente parlando.
Questo aumento di gettito concorrerà (ovviamente assieme ad altri interventi di reperimento di risorse, vista l’esiguità della cifra) alla copertura di diversi sgravi del decreto del fare: ad esempio la nuova “Legge Sabatini”, cioè l’intervento della Cassa Depositi e Prestiti a favore di imprese che acquisteranno nel triennio 2014-2016 macchinari ed impianti produttivi; ma anche alla copertura del buco di gettito causato dal rinvio della Tobin Tax, l’oggetto misterioso tanto caro agli ideologi dell’equità planetaria anti-finanza ma che proprio non riesce ad andare a regime, e quando lo sarà finirà con l’essere solo l’ennesimo balzello su un risparmio ormai stuprato in nome di varie emergenze. L’aumento di accise concorrerà anche al finanziamento del credito d’imposta per il cinema. Ma anche all’eliminazione o riduzione della tassa di stazionamento per imbarcazioni da diporto, voluta dal governo Monti per compiacere la sinistra della propria maggioranza, e risoltasi in una disfatta.
Il punto però è: servono davvero, quei 75 milioni da maledette accise? Non esisteva altra modalità di reperimento della copertura, tra le voci di spesa? Chi scrive è da sempre tra quanti sostengono che tagli di spesa pubblica, in questa congiuntura depressa, sono molto difficili da attuare, ma qui decisamente si esagera per cattivo gusto.
Quello che tuttavia tende a non essere immediatamente colto è che magna pars delle coperture del decreto, che è stimato costare la non proibitiva cifra di seicento milioni di euro in un decennio, deriva dalla estensione della Robin Tax alle imprese minori, cioè da aggravi di imposta. La Robin Tax, ricordiamolo, è una trovata tremontiana per punire sotto forma di addizionale Ires gli odiati petrolieri ma che in realtà punisce gli amati consumatori, e che si è incistata nel sistema fiscale per manifesta impossibilità o volontà di rimuoverla, come sempre accade in questi casi. Il maggior gettito derivante dalla estensione della Robin Tax alle imprese energetiche con fatturato superiore a 3 milioni e utile netto superiore a 300.000 euro è quantificato dalla relazione tecnica in 150 milioni di euro dal 2015 e 75 milioni annui dal 2016 a fine dell’orizzonte temporale di riferimento. Anche qui, possibile non trovare tagli di spesa compensativi per importi così esigui? E davvero vorremmo eliminare l’Imu prima casa e magari (ma ora non se ne parla più, per carica di patria) rimborsare quella del 2012? Oppure evitare l’aumento Iva trovando 300 milioni di euro al mese? Qui c’è qualcosa che non quadra.
Ma le amenità non sono finite: ricordate l’entusiasmo del ministro dello Sviluppo Economico, il loquace Flavio Zanonato, quando ha annunciato al popolo che la bolletta elettrica degli italiani sarebbe diminuita di corposi 550 milioni di euro dal prossimo anno? Ebbene, pare che anche qui sia in atto una zuffa con la realtà, visto che la relazione tecnica non quantifica i risparmi che si otterrebbero dalla riduzione dei sussidi CIP6. E peraltro, vale la pena notare l’utilizzo disinvolto della espressione “diminuzione della bolletta”: nel decreto è prevista (ma sempre non quantificata) l’abrogazione dell’aumento degli incentivi alla produzione di energia elettrica a mezzo di biocombustibili liquidi, come ad esempio l’olio di palma. In pratica, non di taglio si tratterebbe bensì di mancato aumento degli oneri in bolletta. Persino un incallito treccartaro proverebbe un’ombra di vergogna, per un simile espediente linguistico.
Altra chicca contenuta nel decreto è la sanzione a carico della pubblica amministrazione che ritarda nel concludere un procedimento. Sono 30 (trenta) euro al giorno, con un massimo di 2.000 euro (cioè 66 giorni di ritardo: trascorsi i quali?), importo non cumulabile con risarcimenti per altri tipi di danni (infatti sarà da essi detratto), e per ora limitatamente a procedimenti amministrativi relativi ad avvio ed esercizio di attività di impresa sorti successivamente all’entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge, escludendo i casi di silenzio qualificato ed i concorsi pubblici. Regime sperimentale di diciotto mesi.
Prescindendo dalla certosina delimitazione della casistica assoggettabile alla misura, pare di trovarsi di fronte soprattutto ad una operazione di pubbliche relazioni. E forse conviene augurarselo: hai visto mai che, se i ritardi dovessero produrre importanti oneri a carico della pubblica amministrazione per penali, a qualcuno potrebbe venire l’idea di coprire tali oneri a mezzo di aumento delle accise?
Va bene attuare degli interventi al margine del margine in attesa del collasso finale dell’intero sistema, ma farlo in via preponderante a mezzo di aggravi d’imposta ci pare l’ultima goccia di assurdo in un paese alcolizzato di assurdità.