Quella inequivocabile aria di famiglia corporativa, democratica e sussidiata

In Spagna, il governo nelle scorse settimane ha costituito una speciale commissione per riformare la struttura Irpef, secondo gli abituali auspici: incentivi pro-crescita, sostegno alla classe media, semplificazione, pace nel mondo (questo non esplicito, ma di solito le commissioni di studio tendono a lavorare su auspici molto radicati nell’animo umano). I risultati delle riflessioni dei “saggi” si conosceranno solo il prossimo febbraio, ma nel frattempo il paese presenta squilibri che sono terribilmente simili ai nostri, e tentativi di “soluzioni” altrettanto non dissimili.

Occorre premettere che anche la Spagna ha percorso la via del “risanamento” fiscale attraverso l’aumento rilevante della pressione fiscale, malgrado alcuni prestigiosi abbagli del provincialismo di casa nostra. Che ora si cerchi, si auspichi, si desideri di riformare l’Irpef perché ci si è accorti che la precedente riforma, vecchia di solo un paio d’anni ed incentrata sui meccanismi di detrazione d’imposta e deduzione di imponibile, abbia pesantemente gravato sulla cosiddetta classe media e più in generale sugli scaglioni d’imposta personale sui redditi medi e bassi è certamente meritevole. Forse più che centrare i destini del paese sull’Imu prima casa, come avviene da noi. Ma se l’esito finale resta solo l’ennesimo libro dei sogni, che differenza fa?

La pressione fiscale e parafiscale, si diceva: nel solo 2012 i consumatori spagnoli hanno tagliato del 10% la spesa per il tempo libero, sotto il peso di una disoccupazione rampante ma anche di aumenti di prezzi e tariffe amministrate. Negli ultimi cinque anni, ad esempio, il costo dei documenti ufficiali (le marche da bollo in senso lato, in soldoni) è infatti aumentato del 60%. Nello stesso periodo, le tariffe elettriche sono cresciute del 52%, soprattutto per la necessità di colmare il “deficit tariffario”, di cui ci occuperemo tra poco. La spesa per trasporti è cresciuta del 47%, quella per istruzione universitaria del 23%, a seguito dell’aumento delle tasse universitarie.

L’immagine speculare di questo drenaggio di reddito disponibile, che si aggiunge ai rialzi Iva ed alla “rimodulazione” Irpef, che è delicato eufemismo per dire inasprimento, è un crollo della spesa per consumi, sia in beni durevoli (soprattutto auto, con un vero e proprio collasso, pressoché identico a quello italiano) ma anche in abbigliamento, bar e ristoranti e spese per il tempo libero. Vi ricorda nulla? L’unico segmento della popolazione spagnola che non ha subito una falcidie di reddito disponibile sono i pensionati, per i quali ad esempio non è avvenuto il blocco delle indicizzazioni, anche se tale scelta è costata molto, in termini di drenaggio di risorse dal fondo di sicurezza sociale.

Il “deficit tariffario”, si diceva. E’ un punto di enorme vulnerabilità e squilibrio per l’intero sistema-paese spagnolo. Il governo Aznar ha introdotto un tetto alle tariffe dell’elettricità, poi confermato anche dal governo Zapatero. L’idea era quella, piuttosto naif, di poter ottenere per tale via un rafforzamento della competitività del paese e proteggere i consumatori. In parallelo a questa iniziativa, anche la Spagna ha introdotto generosi sussidi pubblici per lo sviluppo di energie alternative. Il risultato finale è, dall’anno 2000, un deficit tariffario cumulato di 26 miliardi di euro, finanziato con una forma di ingegneria finanziaria che tanto pareva decisiva per il cammino dei popoli verso la felicità e tanto sta rivelandosi una devastazione: lo stato emette debito pubblico garantito da collateralizzazione sulle bollette della elettricità. Si tratta, evidentemente, di un rinvio al futuro della resa dei conti, ed ora siamo al momento dirimente.

La minaccia della Ue di includere comunque il deficit tariffario nel calcolo del deficit pubblico ha costretto il governo Rajoy ad agire. E l’unica via per farlo, nel breve periodo, è quella di rimuovere i sussidi alzando le tariffe a carico dell’utenza. Il peggior momento possibile, per la resa dei conti. Il governo prevede infatti che il deficit tariffario per quest’anno, stimato in ben 4,5 miliardi di euro, venga colmato con aumento delle tariffe per le utenze domestiche pari al 3,2%, aumento dei costi regolamentati a carico dei produttori e trasferimenti pubblici per “soli” 900 milioni. Nel 2014 il deficit tariffario dovrebbe sparire dai conti pubblici: in caso contrario, e di superamento della soglia di 2 miliardi di euro, sono previsti aumenti tariffari automatici, con tutto quello che ne consegue in termini di inflazione tariffaria che drena potere d’acquisto nel peggiore momento possibile.

Si interverrà anche sui ricchi sussidi alle rinnovabili: oggi i nuovi investimenti nel settore erano assunti sulla base di un ritorno finanziario di ben il 18%, stabilito dal governo. Ora si scende al 7,5%, calcolato come media del rendimento del titolo di stato decennale degli ultimi dieci anni, maggiorato di 300 punti-base. Si discute della retroattività di tale abbattimento della redditività sussidiata, che finirebbe col mettere nei guai molti produttori marginali ed inefficienti (con un hurdle rate al 18%, non saranno pochi), e mettere a rischio i crediti delle banche verso i produttori di rinnovabili, che ammonterebbero a circa 40-45 miliardi di euro. Altra tegola al momento sbagliato.

Esiste una morale, a tutto ciò? Intanto, come detto, in questa crisi non esiste il paese “modello”, quello che taglia la spesa, col ricavato taglia le imposte e vissero tutti felici e contenti. Questa crisi ha dimostrato in modo piuttosto inequivocabile questa verità, per chi vuole capire e non ha paraocchi e paraorecchie ideologici. Poi, si conferma che il taglio di spesa è reso difficile da interessi consolidati, che l’esempio dei sussidi energetici, tradizionali e alle rinnovabili, compendia perfettamente. Come sempre, in una democrazia rappresentativa, gli interessi corporativi tendono a bloccare l’intervento contenitivo sulla spesa ed a sostituirlo con l’equivalente di manovre fiscali e parafiscali. Altra cosa di cui ci si dimentica troppo spesso, soprattutto a casa nostra, quando si invocano tagli di spesa “improduttiva”, che invariabilmente cadono in testa agli “altri”.

Ogni paese ha una struttura di spesa pubblica che vede la presenza più o meno corposa di sussidi pubblici, palesi e camuffati. Quando una crisi colpisce ferocemente, come nel caso dell’Eurozona, ci si rende conto che tagliare la spesa pubblica è difficile, quanto e più che durante i tempi di normalità. E che tagliare la spesa pubblica direttamente riconducibile a sussidi è un’illusione, per le resistenze degli interessati, ricatto occupazionale e crack di debito incluso. E così via, sino al collasso finale (quello che vince ogni resistenza di parte, come una sorta di livella di Totò) o fino alla miracolosa ripresa della crescita, che tutto copre col suo mantello. Ecco perché è così difficile dare seguito ai precetti di qualche illuminato “decisore razionale” che pontifica dalle colonne dei quotidiani. Il difetto delle nostre democrazie corporative (tutte, in vario grado e misura, e che viene messo a nudo quanto più grave è la crisi economica) è che sono terribilmente refrattarie sia alla razionalità degli ottimati che al modello dell’autocrate illuminato stile Singapore.

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