Al mondo non esiste solo la disinflazione che volge in deflazione, quella che attualmente interessa i paesi sviluppati. C’è una parte del pianeta, e sono tutti paesi emergenti, che soffre di alta e crescente inflazione. Del fenomeno si è accorto anche il Fondo Monetario Internazionale, nel suo ultimo Global Financial Stability Report.
Sono quattro, i grandi paesi che al momento soffrono maggiormente. Il Brasile, che malgrado una serie impressionante di rialzi dei tassi ufficiali ha l’inflazione tendenziale al 6,7%, oltre la soglia superiore del 6,5% fissata dalla banca centrale. Poi la Turchia, che come noto ha una politica monetaria pesantemente condizionata dalla politica, e la cui banca centrale di recente ha capitolato alla pressione governativa abbassando i tassi malgrado la persistenza di un ampio deficit delle partite correnti richiederebbe il contrario, e la cui inflazione potrebbe raggiungere il 9,4% entro fine anno, contro una previsione ufficiale della banca centrale al 5,3%. Poi c’è il Sudafrica, che ad agosto ha toccato un tendenziale del 6,4%, e paga a sua volta un ampio deficit delle partite correnti ed un cambio pressoché liberamente fluttuante.
Da ultima, tra i “grandi malati”, la Russia, che paga soprattutto le sanzioni occidentali, che hanno iniziato a causare un forte rialzo nei prezzi degli alimentari. Non si arresta inoltre il forte deflusso di capitali dal paese, accelerato in un circolo vizioso dal timore che il governo possa finire con l’imporre controlli sui movimenti di capitale. Da inizio ottobre (cioè in soli 9 giorni, ricordiamolo), la banca centrale russa ha immolato oltre 3 miliardi di dollari in riserve, nel tentativo di frenare il deprezzamento del rublo, di cui 1,5 miliardi nella sola giornata dell’8 ottobre. La decisione delle autorità monetarie russe di non difendere (per ora) il cambio aumentando i tassi d’interesse accresce la pressione sul cambio, a cui contribuisce anche il forte calo del prezzo del greggio, che come noto per la Russia rappresenta la fonte principale degli introiti valutari. L’inflazione tendenziale russa ha toccato a settembre l’8%.
La pressione inflazionistica sui paesi emergenti si è accentuata da quando la Fed ha annunciato, a maggio 2013, che avrebbe proceduto a normalizzare la propria politica monetaria, a partire dalla rimozione progressiva degli acquisti di Treasury e titoli ipotecari. Il rafforzamento del dollaro conseguente ad attese di rialzo dei tassi statunitensi, come da consolidata tradizione, ha causato deflussi dalle valute dei paesi emergenti, inducendo aumenti di costo dell’import, e spingendo le banche centrali a stringere la politica monetaria, oltre a causare immancabili problemi alla politica fiscale dei paesi coinvolti, vista la consolidata prassi di imponenti sussidi alimentari ed energetici che letteralmente esplodono quando i governi tentano di isolare la popolazione da shock di prezzo sui beni importati. Ciò tende a causare circoli viziosi di deficit pubblici che vanno fuori controllo e che spesso devono essere gestiti con interventi di monetizzazione della banca centrale, che a loro volta alimentano inflazione e deprimono il cambio. La situazione, per i paesi emergenti, è resa complicata anche dalla tendenza ad indebitarsi in dollari, che da tempo caratterizza sia il settore pubblico che quello privato e che trae la propria radice nei grandi afflussi di capitale di cui i paesi emergenti godono nelle fasi di espansione economica (e monetaria) dei paesi sviluppati.
Quindi, riepilogando: gli Stati Uniti appaiono in salute, sia pure in termini relativi; ciò mette forza al dollaro, che deprime il prezzo delle materie prime, già di loro indebolite dalla frenata cinese e dal persistente stato catatonico dell’Eurozona. I paesi emergenti, produttori di materie prime, vengono quindi colpiti sia da deflussi di capitali “caldi”, che tendono come detto a verificarsi nelle fasi di forza del dollaro, che dal minor introito valutario da materie prime. In tali paesi si genera quindi inflazione, che spinge le autorità monetarie ad intervenire per “proteggere” in qualche modo il cambio. E, come detto, pressioni al rialzo sui deficit pubblici legate sia al rallentamento della congiuntura che ai maggiori esborsi per sussidi che tendono a generarsi spontaneamente. Di conseguenza, gli emergenti frenano più o meno pesantemente e finiscono quindi col perdere capacità di contribuire alla crescita dei paesi sviluppati (leggasi: assorbono meno del nostro export).
Tutto ciò per segnalarvi che non viviamo un momento economicamente tranquillo, cosa di cui forse vi sarete accorti aguzzando lo sguardo oltre il cortile di casa. Il mondo è fatto di squilibri economici, notoriamente. A volte, tuttavia, il numero e la magnitudine di tali squilibri finiscono col superare un livello fisiologico.