Bad bank? No, thanks

Oggi su Repubblica, un commento di Alessandro Penati (sempre sia lodato) contro la creazione di una bad bank con soldi pubblici. Sono concetti che ormai dovremmo aver acquisito ma è utile reiterarli, perché questa è una delle classiche vicende italiane che si tende a far sfuggire ai radar per risolvere molti problemi a élite e gruppi di controllo di un paese di piccoli e grandi oligarchi. E sarebbe opportuno continuare a parlarne e spiegare, per evitare gli abituali esiti.

Secondo la tesi di Penati, la nostra bad bank arriverebbe con almeno tre anni di ritardo:

«La crisi del 2008 aveva generato perdite tali da far emergere il rischio di una catena di fallimenti bancari che avrebbe fatto crollare il sistema dei pagamenti, travolgendo l’economia mondiale. Data la severità e globalità della crisi, i capitali privati erano insufficienti per assorbire le perdite, ricapitalizzarele banche e ristabilire la fiducia. L’intervento pubblico era quindi indispensabile perché il mercato aveva cessato di funzionare. La situazione attuale è ben diversa: molti paesi hanno completato la ristrutturazione delle loro banche; il sistema finanziario internazionale è solido; e gli Stati stanno ritirando gli aiuti concessi. La nostra bad bank arriva quindi con almeno tre anni di ritardo. Abbiamo perso tempo, compiacendoci della solidità delle nostre banche, che, nel loro complesso, hanno cominciato ad aumentare gli accantonamenti a copertura dei crediti deteriorati solo a partire dal giugno 2013»

Ricordate l’idiozia delle banche italiane “che non parlano inglese”? Ecco, quella. Tipico esempio di pensiero magico, all’incrocio della “cattura oligarchica”: non bisognava disturbare i gruppi di controllo, chiedendo loro di ricapitalizzare, perché soldi ne avevano pochi e nulla. Al limite, come foglia di fico, si poteva sempre dire che la ripresa era dietro l’angolo e quindi che molti crediti si sarebbero disincagliati (accadrà da qui in avanti, se saremo bravi e fortunati). Quante volte abbiamo sentito, in discorsi istituzionali, la fiaba delle banche italiane che non hanno speculato coi cattivi derivati e che sono rimaste a presidio del territorio? Ora improvvisamente cambia tutto e scopriamo un inesistente “fallimento del mercato”? Ma mi faccia il piacere, avrebbe detto Totò.

E oggi, prosegue Penati, il mondo è pieno di capitali a caccia di opportunità, che potrebbero dirigersi anche verso le nostre banche. Può essere, ma forse non in tutte, vista anche la struttura proprietaria di alcune, e la loro risoluta chiusura allo “straniero”, che spesso è il vicino di provincia o comune. E da queste considerazioni forse emerge dove si trova il problema. Quello che forse non emerge con altrettanta chiarezza, dallo scritto di Penati, è che ci sono aree problematiche del settore creditizio dove sarà molto difficile reperire capitali. Perché è vero che in alcuni casi le ricapitalizzazioni sono avvenute e potranno avvenire, magari dopo la conversione delle maggiori popolari in società per azioni ma per gli istituti minori, che comunque erogano molto credito, il problema rischia di restare irrisolto.

E qui Penati presenta alcuni dati su cui riflettere:

«Ma in Italia, anche i regali non sono uguali per tutti. Se MPS, incalzato dalla BCE, ha svalutato le sofferenze accantonandone quasi il 66%, e le grandi banche con azionisti internazionali (Intesa e Unicredit) oltre il 62%, le quattro maggiori popolari si fermano in media al 48%; ma ce ne sono, anche di medie dimensioni, che non arrivano al 40%. Le banche sono diverse, ma operano nello stesso contesto economico: difficile immaginare che sia la rischiosità media dei prestiti a giustificare tale differenza»

Il sospetto è che, scendendo nella scala dimensionale e nella minore contendibilità, si annidino i problemi più seri. Questo non stupirebbe, e del resto lo abbiamo segnalato in tempi non sospetti. Ma se, nell’ecosistema creditizio italiano, ci sono entità non più in grado di sopravvivere nell’attuale assetto, serve promuoverne l’adattamento all’ambiente, non creare entità sussidiate. Ed ignorare i pianti greci (in un inquietante nuovo significato) degli improbabili “paladini del territorio”. E comunque, la strada per risolvere il problema dei bad loans è una ed una sola: accelerare i tempi della giustizia civile e consentire alle banche la deducibilità delle perdite su crediti in un solo anno, come nei paesi con cui ci confrontiamo. Sarà costoso, soprattutto per il secondo intervento (costo che potrebbe comunque essere mitigato chiamando le banche ad un “sacrificio” fiscale), ma almeno è trasparente. E non fornisce l’aiutino sottobanco a piccole e grandi oligarchie.

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