Alibi cercansi per una non crescita

Pare che i nostri eroi abbiano scoperto che esistono quelli che economisti e banchieri centrali definiscono “rischi al ribasso” per la nostra crescita economica. Tuttavia, anziché andare a ricercarli nella congiuntura globale e nella reattività alla medesima da parte della nostra struttura economica, è iniziata la caccia allo shock negativo esterno. Ennesima versione di un autoinganno che col governo Renzi sta toccando vette inesplorate.

E quindi, anziché procedere con una inferenza alla portata di un primate (la sequenza di variazione del nostro Pil negli ultimi tre trimestri: +0,4, +0,3, +0,2%), ed iniziare a porsi domande, eccoci pronti ad alzare la bandierina sugli impatti che le atrocità di Parigi ed il costante rischio di terrorismo islamista che incombe sulle nostre teste potrebbero avere sulla fiducia e quindi sulla nostra crescita.

Giusto preoccuparsene, per carità. Ma resta il fatto che le minacce alle nostra gracilissima “crescita” sono ben anteriori al 13 novembre parigino, e da tempo in corso di appalesamento. Il commercio estero, ad esempio, mostra da mesi un forte rallentamento dell’export. Come ciò potesse non avvenire resta uno dei grandi misteri della psiche umana: abbiamo una pesante recessione in corso in quello che per due lustri è stato il motore della crescita globale, i paesi emergenti. Entro i quali c’è un enorme punto interrogativo chiamato Cina.

Scambiare una flebile ed occasionale ripresa dei consumi domestici, indotta dalla stabilizzazione del mercato del lavoro e dalla disinflazione in atto, per un cambiamento “strutturale” del modello di sviluppo del paese, tale da “isolarlo” da ripercussioni esterne, va contro demografia e buonsenso. E fa il paio con andamenti della fiducia dei consumatori che sono storicamente del tutto anomali ma che mantengono una robusta differenziazione tra “condizione del paese” (sulla cui valutazione impatta in misura non lieve la grancassa comunicativa governativa) e condizione personale, corrente ed attesa, che è in ripresa assai più lieve, e non accorgersi che le vendite al dettaglio restano del tutto fredde, sia in termini nominali che reali, è parte del sortilegio che ha catturato le menti del popolo italiano.

I dati sui prezzi al consumo di novembre, pubblicati da Istat, gettano ulteriore luce sulle criticità della “crescita”. L’inflazione al consumo, calcolata secondo l’indice nazionale, cala dello 0,4% su ottobre e cresce di appena lo 0,1% su novembre 2014. A ottobre il tendenziale era di +0,3%. Prima che obiettiate sul fatto che “è tutto frutto del calo del prezzo del petrolio”, sappiate che a questo giro non è così bensì frutto di raffreddamento nel comparto dei servizi, in particolare di quelli ricreativi, culturali e della cura della persona (-1,8% mensile), dovuta soprattutto ai Servizi ricettivi e di ristorazione (-2,5%), e dei Servizi relativi ai trasporti (-1,2%). L’inflazione di fondo, cioè quella che si ottiene escludendo le variazioni di prezzo dei componenti volatili di energia ed alimentari, frena a novembre a +0,6% da +0,8% tendenziale di ottobre.

In sintesi, esiste nel sistema una pressione disinflazionistica che mette a rischio il paese: perché se da un lato la gente è in grado di comprare di più, e sente di poterlo fare sinché vede che la propria condizione personale non peggiora, dall’altro mette pressione sui margini delle aziende, che conseguono fatturati poco variati o addirittura cedenti. Nel breve termine il consumatore festeggia (si fa per dire) e la sua fiducia sale, nel medio termine le aziende sono costrette ad efficientare e tagliare la struttura dei costi, personale incluso, se i fatturati stagnano o calano.

A livello macro, avere una previsione di crescita del Pil nominale del 2,6% nel 2016, di cui 1% da inflazione, appare una scommessa rischiosa, anche scontando nel 2016 un rimbalzo dei prezzi derivante dalla progressiva scomparsa dell’effetto statistico del crollo del greggio del 2015. Un aiuto verrà da Mario Draghi e dal potenziamento dell’easing quantitativo: per molte imprese ciò equivarrà ad una ulteriore riduzione degli oneri finanziari e ad una boccata d’ossigeno, per i conti pubblici a minor spesa per interessi, che qualche genio della contabilità creativa vorrà correre a spendersi.

Da sempre Matteo Renzi è ossessionato dalla ripresa dei consumi domestici, e purtroppo per lui non ha ancora trovato chi riesca a spiegargli che sta sbagliando completamente approccio, oltre a fargli prendere coscienza che esistono poderosi e strutturali elementi frenanti ad una robusta espansione dei consumi. Non stupisce pertanto la sua vera e propria gaffe di ieri, quando ha detto che, a fronte della minaccia terroristica, “i consumatori non devono chiudersi in casa”. Il punto è che sono i cittadini a non dover chiudersi in casa, prima ancora dei consumatori, e non viceversa. E per motivazioni che trascendono di misura incommensurabile quelle strettamente economiche. Ma questi sono e restano dettagli. Il punto vero è che le vulnerabilità italiane restano tutte sul tappeto, e tentare di spingerle sotto al medesimo aumenta il rischio di finire sotto le macerie. Eppure siamo qui a dibattere furiosamente se quest’anno riusciremo a “crescere” dello 0,9% anziché dello 0,6 o dello 0,8. Ci sarebbe da ridere, se non fosse una cosa maledettamente seria.

P.S. A proposito, ma voi ricordate il Tremonti che per anni ha detto che la bassa crescita italiana era frutto dell’11 settembre, mentre il resto del mondo cresceva al galoppo, con o senza bolle immobiliari? Ecco, siamo sempre noi, alla fine. Il nostro modello culturale mainstream sfida il tempo e la realtà.

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