Oggi su Repubblica un editoriale di Alessandro Penati illustra la sfida che la Cassa Depositi e Prestiti ha di fronte a sé, dopo la presentazione del piano industriale quinquennale che promette di mobilitare ben 265 miliardi di euro a sostegno dell’economia italiana e del ciclo di vita delle imprese, evolvendo verso qualcosa di simile ad un private equity e venture capital, oltre a dedicarsi agli investimenti infrastrutturali. Ottimi propositi che tuttavia, secondo Penati, rischiano si scontrarsi con la realtà.
La realtà dice che la Cassa è piuttosto tirata, sul piano finanziario e patrimoniale, ed ha al momento una redditività piuttosto problematica. Gli investimenti infrastrutturali, come segnalato da Penati, sono caratterizzati da ritorni sull’investimento in tempi lunghissimi, e l’intervento della Cassa in partnership pubblico-privata dovrebbe evitare di perpetuare la costante di questo paese di capitalisti relazionali, cioè di accollare al pubblico gli oneri e lasciare ai privati i benefici. Il rischio è quello di disperdere e sprecare risorse, e depauperare il patrimonio della Cassa.
Altro filone di redditività potenziale piuttosto elevata, come scrive Penati, è
[…] quello relativo alla assunzione di rischi che nei mercati finanziari sviluppati sono gestiti da operatori specializzati privati per gli investitori di lungo periodo. Ma praticamente inesistenti da noi a causa di un sistema storicamente banco-centrico. Mancano capitali per venture capital, private equity, ristrutturazioni aziendali, prestiti diretti, cartolarizzazioni, debiti in sofferenza, tranche di debito a più alto rischio.
Ottima idea ma il problema è che non ci si può inventare venture capitalist in una notte di luna piena, però. E che, nel caso della Cassa, oltre alle competenze manca anche “altro”:
Manca però il capitale: la Cassa è sotto-patrimonializzata per i rischi che dovrebbe assumere. Il bilancio della Capogruppo è in gran parte vincolato dai finanziamenti allo Stato: i 253 miliardi di raccolta postale (più 15 di crediti da entità sovranazionali) servono per girarne 270 alla Pubblica amministrazione sotto forma di prestiti a enti locali, depositi in Tesoreria e titoli di stato. La “privatizzazione” della Cassa, dunque, è stata principalmente un espediente per mascherare debito pubblico
Alla Cassa, per dare il via a queste iniziative, serve quindi capitale, e non poco, perché
La leva quindi è già elevata (quasi 20 volte l’attivo/patrimonio, contro 12-14 delle principali banche), specie a fronte dei rischi che le partecipazioni comportano. La Cassa quindi non ha abbastanza patrimonio per finanziarsi emettendo obbligazioni proprie, come fanno le banche di sviluppo: verrebbe declassata a spazzatura’. L’unica soluzione sensata sarebbe vendere le partecipazioni in Eni e Reti per liberare risorse per il piano. Ma, oltre a costituire in Italia una bestemmia politica, con il petrolio a 33 dollari, non è il momento di vendere un portafoglio concentrato nell’energia.
Ops. Ci si potrebbe comunque chiedere perché, anche in un paese bancocentrico come l’Italia, iniziative di venture capital non possano svilupparsi in ambito privato. Ma a parte questi dettagli, i problemi restano: uno stato patrimoniale a leva elevata, che è compatibile con la gestione di attività a basso rischio e basso rendimento ma certo non con quelle tratteggiate nel nuovo piano industriale quinquennale. Se poi osservate il conto econonomico di CDP (qui), vedete che non si tratta di una realtà per rocket scientist, e che ci sono criticità: nel 2014 il margine di interesse era praticamente dimezzato, a causa del QE della Bce, elemento che accomuna la Cassa alle banche commerciali. Tale margine era poi completamente divorato (anzi, oltre) dalle commissioni pagate a Poste italiane per l’esclusiva sulla raccolta postale. Solo i dividendi da portafoglio (soprattutto Eni e Reti, peraltro quasi dimezzati rispetto al 2013, e pensate al prossimo dividendo Eni, col petrolio a questi livelli) e gli utili da cessione di attività disponibili per la vendita (che non sono necessariamente ripetibili) hanno salvato il margine di intermediazione.
In sintesi: si fa presto a dire e fare private equity e promettere un boom di investimenti redditizi, soprattutto decisi altrove, ma il rischio, prescindendo da quello degli sprechi e dissipazione di capitale al momento molto scarso è che, come scrive Penati, “il piano si risolva in un effetto ottico moltiplicativo, simile d’altronde al piano Juncker, per il quale 21 miliardi dovrebbero mobilitarne 350”.