A noi non ci han fregato gli studi classici

Oggi sul Foglio compare la replica con cui lo zar della spending review, Yoram Gutgeld, tenta di confutare i numeri di Veronica De Romanis, secondo i quali i leggendari risparmi di spesa pubblica per 25 miliardi di euro, frutto di “iniziative intraprese tra il 2014 e il 2015 e la legge di Stabilità 2016” si risolvono in realtà in una “variazione netta negativa” di spese per soli 360 milioni, di cui 319 in conto capitale.

Per confutare la tesi della De Romanis (che non è una tesi ma sono numeri, e pure ufficiali), Gutgeld elabora una risposta che prevede anche questo (enfasi nostra):

«I pre-consuntivi della spesa pubblica del 2015 rilasciati qualche giorno fa certificano che la spesa corrente l’anno scorso era quasi 12 miliardi di euro più bassa che nel 2014 (749,6 miliardi contro 761,5 miliardi, classificando gli 80 euro per quel che sono, una riduzione di tasse). Nell’analogo periodo, la spesa pubblica corrente della Gran Bretagna è salita di 8 miliardi di sterline (da 673,3 a 681,2 miliardi). In altre parole, con la spending review all’inglese avremmo dovuto cancellare nel 2015 gli 80 euro; non avremmo potuto stanziare un euro per la riduzione dell’Irap, per la decontribuzione dei nuovi contratti a tempo indeterminato, e per finanziare maggiori investimenti pubblici dei comuni, nelle scuole e nelle infrastrutture»

Ora, premesso che i raffronti tra paesi andrebbero fatti in proporzione al Pil, soprattutto quando vi sono rilevanti differenziali di crescita, vi inviteremmo a soffermarvi principalmente su questo passaggio:

«(…) la spesa corrente l’anno scorso era quasi 12 miliardi di euro più bassa che nel 2014 (749,6 miliardi contro 761,5 miliardi, classificando gli 80 euro per quel che sono, una riduzione di tasse)»

Eccola qui, l’antica disputa teologica. Assai tipica di un paese affetto da incurabile analfabetismo numerico e contabile. Ripetiamolo per l’ennesima volta: il punto non è che una voce di bilancio sia appostata tra le maggiori spese anziché tra le minori entrate. Il risultato finale resta uno ed uno solo: maggiore deficit. Che, come tale, andrà finanziato. Se valesse l’argomentazione di Gutgeld e di molti suoi compagni di partito, avremmo scoperto il moto perpetuo: basterebbe pagare sussidi a chiunque, rinominando le poste di bilancio, e poi sbracciarsi dicendo “ehi, ma queste sono minori tasse, non maggiore spesa!”. In tal modo, pensate, non solo riusciremmo a dare caramelle a chiunque, alla bisogna elettorale, ma l’effetto ottico di questo maggiore deficit sarebbe pure quello di ridurre la spesa! Ma perché non ci abbiamo pensato prima?

Dopo aver sistemato il Regno Unito, Gutgeld si volge alla Spagna, con questa suggestiva comparazione:

«Nel valutare l’efficacia delle politiche economiche è utile ricordare che nessun governo (purtroppo) possiede una bacchetta magica. Le riforme richiedono tempo per produrre i loro effetti, ed è quindi ragionevole confrontarle a parità di tempo trascorso dai blocchi di partenza. Se si accetta questo criterio, dal paragone tra il governo Rajoy e il governo Renzi emerge un altro quadro. Nel nostro caso, siamo passati da decrescita a crescita positiva dopo 3 trimestri. La Spagna ce ne ha messi 7. Nel nostro caso la disoccupazione è scesa sotto il livello iniziale al terzo trimestre. La Spagna ce ne ha messi 11»

Suggestivo. Se non fosse che la posizione fiscale dell’Eurozona ha cessato di essere restrittiva solo da un paio d’anni a questa parte, e senza considerare la straordinaria politica monetaria non convenzionale della Bce e lo shock petrolifero positivo, ma sono dettagli. Mettersi a fare comparazioni di questo tipo omettendo variabili fondamentali finisce col produrre l’ennesima correlazione spuria, come quelle che mettono in relazione il tasso di divorzi nel Maine col consumo pro capite di margarina. Ovviamente, Renzi & Friends potrebbero argomentare che la posizione fiscale dell’Eurozona ha cessato di essere restrittiva grazie all’avvento dell’ex sindaco di Firenze. Anzi, già lo dicono, per essere sinceri. Quanto a petrolio, tassi e cambio dell’euro, di certo c’entra il semestre italiano di presidenza rotativa Ue, come si diceva.

Come che sia, in questa “confutazione”, Gutgeld riesce ad esibirsi in due fallacie economico-numeriche di eccellente fattura: la maggiore spesa spostata a minore pressione fiscale (omettendo il risultante deficit) che diventa a tutti gli effetti “taglio di spesa”, il che avrebbe fatto schiantare d’invidia il conte di Cagliostro; e la comparazione sui tempi di recupero tra paesi, omettendo anche qui variabili esterne decisive nell’esito finale.

Considerando la formazione di Gutgeld (che in realtà è una mirabile sintesi), e considerando pure la quantità industriale di reazioni pavloviane e sdegnate a questo titolo (che confermano che il clickbait è vivo e lotta insieme a noi), possiamo serenamente dire che a noi italiani non ci han fregato gli studi classici. Più verosimile che ci abbia fregato il fatto di essere italiani. E ciò vale anche per chi italiano lo è divenuto, come Gutgeld. E pure con grande profitto, si direbbe.

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