Tafazzi Tax, Made in Italy

Ricordate la Tobin Tax? Ma si, quella che doveva punire la finanza kattiva e spekulativa, portare la pace nel mondo ed un robusto gettito alle casse pubbliche? Quella che crassamente ignorava chi venisse realmente inciso dall’imposta, cioè il contribuente de facto, focalizzandosi invece su quello de jure? Quella che doveva e poteva essere applicata solo “da chi ci stava”, col meccanismo comunitario Ue della “cooperazione rafforzata”, anche se questo avrebbe fatalmente creato maglie larghe di elusione verso altri mercati finanziari? Ecco, quella. Pare che, come nella migliore tradizione nazionale, sia servita all’Italia per spararsi nei piedi. O forse in altre parti anatomiche. Non che ne avessimo dubbi.

Come riporta oggi il Sole con un articolo di Antonella Olivieri, citando uno studio curato da Gabriella Chiesa e Sergio Pastorello del Dipartimento di scienze economiche dell’Università di Bologna (sponsorizzato dalla fondazione piddina EYU: guardate la luna e non il dito, mi raccomando), l’introduzione della Tobin tax sulla borsa italiana (dieci per mille del controvalore di acquisto, tranne che per i tossici del day trading) ha determinato un’impennata dell’onerosità degli acquisti azionari ed un calo dei volumi negoziati sul mercato domestico, con conseguente taglio del gettito per le patrie casse erariali. Inoltre, grava anche sui derivati che abbiano ad oggetto azioni o indici italiani, danneggiando le operazioni di copertura ma anche quelle direzionali. Nel caso dei derivati, è poi applicata roundtrip, cioè sia su acquisti che su vendite. Un trionfo, in pratica. Come scrive Olivieri,

«Le stime dicono infatti che i volumi della Borsa italiana sono scesi di quasi il 30% rispetto ai due mesi precedenti l’introduzione della Tobin tax (gennaio/febbraio 2013), mentre nel resto dell’Europa sono saliti nello stesso periodo del 4,5%; e sono scesi di oltre il 20% rispetto alla media degli scambi di tutto l’anno precedente (il 2012), contro il +0,7% del resto dell’Europa. Questo nei 12 mesi successivi all’introduzione della tassa. Scendendo in maggior dettaglio, le evidenze dicono che dal 2013 al 2015 la “quota di mercato” degli investitori sulle negoziazioni di Piazza Affari è scesa dal 44% al 36%, mentre quella degli intermediari in conto proprio è aumentata di conseguenza rendendo di fatto il mercato azionario italiano più “rischioso”. Lo studio dell’Università di Bologna segnala inoltre, tra le conseguenze, un allargamento dello spread tra denaro e lettera e un aumento della volatilità»

Ma anche un aumento del costo del capitale per le società quotate in Italia. Le abbiamo centrate tutte, in pratica, nel nobile intento di preservare la condizione di sottosviluppo del mercato azionario italiano. A fronte di un gettito annuo stimato in 1,1 miliardi, quest’anno si stima non si andrà oltre i 250 milioni. Introdotta dal governo Monti con zelo degno di miglior causa, questa gabella ha prodotto effetti e danni al gettito ed all’economia simili all’altra tassa-simbolo montiana, quella sullo stazionamento delle imbarcazioni da diporto. L’imposta è stata sinora mantenuta dal governo Renzi, con Pier Carlo Padoan che solo qualche mese addietro ne sognava il rilancio in sede comunitaria, sempre nella cornice della famigerata cooperazione rafforzata, mentre da qualche giorno girano voci e vocine di ripensamento.

La cosa più divertente è che, mentre gli altri paesi riescono a fare tesoro (letteralmente) delle idiozie demagogiche dei propri governanti, l’Italia parte regolarmente lancia in resta su ogni imposta dal potenziale fortemente distorsivo ed autolesionistico, brandendo giustificazioni terzomondiste d’accatto, in cui notoriamente siamo tra i maggiori specialisti mondiali. Però deve essere colpa dei tedeschi, che dopo aver annunciato per bocca della Merkel la propria entusiastica adesione al progetto per salvare il mondo dalla speculazione, si sono eclissati. Restano gli italiani, a percuotersi con voluttà le parti intime.

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