Il mutuo pensionistico del paese che ipotecò il proprio futuro

Su Repubblica, un articolo di Valentina Conte indica quanto è accidentata la strada della flessibilità pensionistica che il governo Renzi sta cercando di attuare, per dare un contentino ai sindacati. Un’autentica quadratura del cerchio, tra oneri potenziali per le casse pubbliche che rischiano di sfondare i preventivi e la falcidie della rendita pensionistica, con un debito che pende sul capo del pensionato per il resto della sua speranza di vita, ed oltre. Su tutto, il puntello dell’intervento del sistema bancario che sul piano estetico non è il massimo della vita. Ma a questo giro, al netto di una qualche faciloneria di troppo, il governo non pare avere troppe colpe.

Come scrive Conte, sono molte le incognite dell’equazione. Ad esempio, il tasso d’interesse praticato dalla banca finanziatrice. Di chi è il rischio di credito, in una situazione del genere? Del richiedente o dello Stato che garantisce tramite Inps? Verosimile dire che è la seconda. Ma se le cose stanno in questi termini, il debito derivante dovrebbe finire in capo a quello pubblico, aumentandolo. Altra incognita: l’entità delle detrazioni fiscali per alleggerire l’esborso a carico del pensionato ed evitare di massacrargli l’assegno mensile sino alla fine dei suoi giorni. Si è detto che l’APE (anticipo pensionistico) sarebbe fruibile da chi vuole lasciare volontariamente il lavoro prima del raggiungimento dei requisiti di vecchiaia, ma anche dai disoccupati di lungo corso non impiegabili, o da persone che verrebbero invitate ad uscire anticipatamente dal proprio datore di lavoro, desideroso di ristrutturare e ringiovanire gli organici aziendali. La massima tutela pubblica, in termini di oneri, dovrebbe andare alla seconda categoria. Chi lascia prima su base spontanea avrebbe minore protezione fiscale, mentre nel terzo caso sarebbero le aziende a sostenere i relativi oneri. Se questa tripartizione non risulterà troppo permeabile alle italiche furbizie, ovviamente. Utile segnalare che nella categoria dei disoccupati di lungo corso e non impiegabili finirebbero gli esodati che esodati non sono, e quindi qui si farebbe assistenza più che previdenza.

Altra incognita potenzialmente molto costosa: il premio assicurativo in caso di premorienza del pensionato. Si è calcolato che la vita residua all’età in cui si inizia a ripagare l’APE (66 anni e 7 mesi), è pari a circa 19 anni, quindi meno dei vent’anni previsti per il rimborso del mutuo previdenziale. Chi paga quindi il premio assicurativo per un evento altamente probabile? Come si legge nel pezzo di Valentina Conte, che cita simulazioni di Progetica,

«Un lavoratore nato il primo giugno del 1953 che oggi intasca 2 mila euro netti di stipendio – con una carriera alle spalle fluida, senza buchi e con una progressione accettabile della retribuzione dell’1,5%- se non chiedesse di andare in pensione prima, secondo i calcoli di Progetica prenderebbe 1.703 euro dal 2020 in poi, allo scoccare dei 66 anni e 11 mesi. Se invece si avvalesse al massimo dell’Ape, anticiperebbe l’uscita al 2017, cioè a 63 anni e 7 mesi, ma con un assegno ridotto a 1.542 euro, per via dei tre anni di contributi mancanti. E ulteriormente tagliato a 1.267 euro dal 2020 in poi, grazie alla rata del “mutuo” previdenziale da 275 euro al mese. Se poi fosse a suo carico anche l’assicurazione per il rischio morte, la rata lieviterebbe di altri 72 euro, arrivando a 347 euro, quasi un quarto della pensione, già decurtata di 200 euro rispetto all’importo pieno che si avrebbe senza l’Ape. L’assegno precipiterebbe insomma dai 1.703 euro di spettanza ai 1.195. Un salto di non poco conto. E per sempre, di fatto»

Un discreto massacro, come si vede. Che sfonda il famoso quinto dello stipendio/pensione, considerato un limite inviolabile, per ottenere tre anni di anticipo pensionistico. Ma il governo non può fare molto di più, date le condizioni della nostra finanza pubblica. Se le norme Ue considerassero il valore attuale delle passività pensionistiche e non i flussi correnti di cassa, la flessibilità potrebbe essere concessa usando un meccanismo simile all'”Opzione donna”: finestre di uscita anticipata rispetto alla vecchiaia ma ricalcolo dell’intero assegno col metodo contributivo puro. Ma la Ue non usa il calcolo attuariale per determinare le passività previdenziali. Anche con la versione riveduta e corretta dell’opzione donna sarebbe comunque una robusta mazzata al pensionando. Perché bisogna rendersi conto di una spiacevole verità: il nostro sistema pensionistico è e resta a ripartizione, anche col correttivo del metodo contributivo introdotto dalla riforma Dini. Detto in altri termini il nostro sistema previdenziale, per motivi demografici, è e resta un gigantesco schema di Ponzi. Se la riforma Dini, ventuno anni addietro, fosse stata meno timida, ora (forse) non ci troveremmo in questa situazione di inesistenza di margini di manovra.

Poi si può dare la colpa all’euro ed alla Ue, che è sempre trendy, e quindi se potessimo stamparci i soldi il problema non si porrebbe; oppure si può affermare che in questo paese ci sono una ventina di milioni di lavoratori precoci ed usurati, uscieri inclusi; o anche che se aumentiamo i pensionamenti potremo riassorbire la disoccupazione giovanile (senza rendersi conto che i paesi con i maggiori tassi di occupazione giovanile hanno anche i maggiori tassi di occupazione per i senior) ma la verità sta altrove, come sempre. E la verità è che questo paese si è fottuto con le proprie mani, nel corso degli ultimi decenni. Se ora siamo giunti al mutuo previdenziale sino alla morte, è perché molto tempo addietro abbiamo ipotecato il nostro futuro.

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