Il dibattito italiano sul Fiscal Compact e i conti senza l’oste della realtà

Nell’ambito del dibattito, a dire il vero tutto italiano, su come superare il Fiscal Compact, il Sole ospita un interessante contributo di Luigi Marattin, consigliere economico della Presidenza del Consiglio. Prendendo le mosse dalla boutade balneare di Renzi, la richiesta di deficit-Pil al 2,9% per cinque anni, Marattin giunge ad una proposta economicamente sensata ma che finisce a scontrarsi con le difficoltà legate soprattutto al divenire dell’architettura istituzionale dell’Eurozona.

Marattin premette di considerare inadatti ed inadeguati i criteri sin qui utilizzati. Sia quello nominale, cioè deficit-Pil al 3% e debito-Pil al 60% “perché basato su parametri macroeconomici di fine anni Ottanta e perché sostanzialmente privo di sanzioni” (vedasi soprattutto Francia), sia quello strutturale, cioè deficit aggiustato per il ciclo tendente a zero a una data velocità annua, perché, nelle parole di Marattin,

«[…] basato su un parametro inosservabile sia ex-ante che ex-post (il Pil potenziale), la cui estrema complessità della stima econometrica rende il percorso dell’aggiustamento fiscale più simile a un’estrazione casuale che non a una regola fiscale»

Questa è da sempre la posizione di Marattin, ed ha senso metodologico. Tuttavia, la realtà è che il nostro paese pare non riuscire a ridurre il proprio rapporto debito-Pil e quella è l’unica cosa che conta, per la sostenibilità fiscale. Proprio per rendere più semplice ed aggiornata la metodologia, Marattin propone essenzialmente di portare la soglia di indebitamento dal 60% al 90% del Pil, in modo che

«I Paesi sopra questa soglia hanno obiettivi di convergenza verso tale valore basati su orizzonti quinquennali, e contingenti alla media mobile di crescita nominale degli ultimi quattro anni. Quanto più bassa la crescita nominale, tanto minore lo step di aggiustamento (in nessun caso -tranne crescita negativa- lo step può però essere inferiore all’1% annuo o superiore al cinque). A quel punto non sarebbe più necessario neanche un vincolo sul deficit: esso risulterebbe automaticamente determinato dall’equazione intertemporale del debito pubblico, dato lo step di aggiustamento e il costo medio del debito»

La proposta è interessante perché coglie il ruolo critico della crescita nominale nel determinare l’andamento del rapporto debito-Pil, raffrontandosi col costo medio del debito. Prevede flessibilità di aggiustamento all’andamento del Pil nominale ma non tende a “sbracare” perché ha comunque un target minimo annuo di calo dell’1%. Sarebbe facile obiettare che i soliti noti si scaglierebbero contro questo target minimo durante le fasi di scarsa crescita del Pil nominale, accusandolo di bias pro-ciclico. Invece il pro-ciclico che piace a noi italiani è quello che durante le espansioni chiede di fare più deficit nominale, vero Renzi? Ma non divaghiamo.

La metodologia è semplice e razionale, centrata sull’unica grandezza che conta, la crescita del Pil nominale. Ma come stimolare la crescita del Pil nominale? O meglio, a chi sarebbe demandata la politica economica per giungere all’obiettivo? Marattin non specifica quanta sovranità di politica economica dovremmo cedere, e questa è un’oggettiva debolezza della sua proposta. Egli si limita a specificare chi dovrebbe stabilire lo step di convergenza verso il nuovo target, il debito-Pil al 90%:

«Tale step viene deciso dalla Commissione Europea o – meglio ancora – da un embrione di ministero del Tesoro Europeo: un’istituzione pienamente federale incaricata di gestire la costruenda capacità fiscale europea e/o le prime emissioni di passività comuni, basate su quanto già avviene con i bond dell’Esm. Questo passo avanti nell’integrazione sarebbe la contropartita di regole chiare e, soprattutto, pienamente cogenti (in altre parole, condivisione del rischi in cambio di regole vere). Il meccanismo sanzionatorio diviene chiaro e automatico»

Manca un tassello, però: si cambia la regola di convergenza del parametro fondamentale, il rapporto debito-Pil, legando l’aggiustamento alla variazione del Pil nominale, il quantum di aggiustamento viene demandato ad un embrione di Tesoro europeo, ed in contropartita di ciò si chiede l’avvio della mutualizzazione del debito, o di parte di esso. Ma, ripetiamolo, nulla viene specificato riguardo a chi dovrebbe decidere le scelte di policy per stimolare la crescita del Pil nominale. Resterebbe in capo ai governi nazionali, come ora? Verrebbe loro tolto, con una cessione estrema di sovranità economica che apparentemente non avrebbe contrappeso democratico? Anche qui, il rischio resta quello di un mercanteggiamento tra stati ed il neonato Tesoro europeo, che riprodurrebbe esattamente le attuali dinamiche con la Commissione Ue.

Marattin prevede poi degli “automatismi” per le sanzioni ai paesi che non riescono a rispettare lo step annuale di riduzione del debito-Pil, il che pare confermare che la scelta degli strumenti di policy per raggiungere l’obiettivo resterebbe in capo al singolo paese. Ma nessun automatismo sarà mai possibile, in un contesto politico come quello europeo, che vive (e muore) di compromesso. Altro punto debole della proposta (ma l’autore pare esserne consapevole), è relativo a quale regola imporre ai paesi con un debito oggi inferiore al 90% del Pil. Qui sarebbe interessante, e finanche divertente, vedere un Tesoro europeo che “prescrive” alla Germania di aumentare il proprio debito pubblico, e restare in ascolto della risposta.

In conclusione, la proposta di Marattin è interessante perché coglie la criticità dello stimolo della crescita nominale, ma finisce a ricadere in un sistema di prescrizioni e sanzioni che riproduce quello attuale, ritenendo invece che sia possibile assegnare il primato alle regole anziché alla discrezionalità. Su tutto, resta il punto centrale: se vogliamo convergenza per porre le basi della mutualizzazione, quale e quanta dovrebbe essere l’autonomia di un governo nazionale nella scelta degli strumenti per raggiungere l’obiettivo? Sino ad oggi, in sede comunitaria ci si è di fatto accontentati di obiettivi perlopiù contabili, che spesso causano un decadimento della performance economica di un paese e della sua competitività. Ogni tentativo di togliere ad uno stato nazionale il timone della politica economica causerà contraccolpi di vario genere, non ultimo quello di un deficit democratico.

Il dibattito resta aperto, almeno in Italia. Esattamente come quello sull’euro. Forse dovremmo preoccuparci di ciò: mentre noi discutiamo febbrilmente di massimi sistemi, con incursioni quotidiane nel regno della fantasia e credendo che anche il resto dei nostri partner stia facendo lo stesso, la realtà prepara il conto.

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