Per Carlo Messina la diversificazione degli investimenti è un errore

Immaginate di avere un portafoglio titoli in cui un singolo investimento arrivi a pesare un terzo. Sareste a vostro agio, con un assetto del genere, oppure vi verrebbe fatto di pensare che forse si tratta di un portafoglio squilibrato, anche se questo maxi investimento sta al momento andando bene? E che vi aspettate possa dirvi il vostro consulente di risparmio, spesso un bancario alle prese con l’angustia di fare il suo budget, e piazzarvi prodotti di risparmio carissimi e poco trasparenti? In astratto, dovrebbe dirvi che un portafoglio del genere è troppo squilibrato, che serve diversificazione, non mettere tutte le uova nello stesso paniere.

Ora, immaginate che il ruolo del risparmiatore sia rivestito da una fondazione, e che l’investimento che rappresenta un terzo del suo patrimonio sia una banca. Non solo, ma sia la banca conferitaria, cioè quella che è stata “espunta” dalla fondazione, per consentire a quest’ultima di svolgere il proprio ruolo istituzionale di Onlus, o charity, come direbbero gli anglosassoni. Forse ricorderete delle devastazioni inflitte alle fondazioni che avevano il proprio attivo concentrato in azioni della banca conferitaria. Pensate alla più celebre tra le fondazioni, quella Monte dei Paschi. Ma pensate anche alle fondazioni che controllavano le banche poste in risoluzione a novembre 2015, incenerite, o a quelle che investivano in Unicredit, dopo le vicissitudini della banca.

Forse ricorderete anche che, quando la bomba MPS esplose, il presidente della Fondazione Cariplo e delle Casse di risparmio italiane, Giuseppe Guzzetti, cadde di schianto dal letto denunciando la condizione di “illegalità” della fondazione senese, nel più classico schema italiano, quello che chiude la porta della stalla a buoi fuggiti e dove c’è sempre un esponente apicale del sistema che arriva a babbo morto con qualche “coraggiosa denuncia”.

Pareva che la disgraziata vicenda senese avesse insegnato qualcosa, nel paese che fa dell’analfabetismo economico finanziario il proprio segno distintivo, come ci ricorda la triste vicenda delle subordinate bancarie. Il governo “indusse” gentilmente (visto che in questi giorni parliamo molto di nudge in onore al neo-Nobel Richard Thaler) le fondazioni ad “autoriformarsi”, magica procedura in cui il regolato fa un casino gigante e finisce in mutande, ma il regolatore non ritiene di riformarlo d’imperio perché alla fine può sempre servire il suo volume di fuoco e consenso. E quindi lo scorso aprile un protocollo d’intesa col MEF ha stabilito che le fondazioni non possano controllare banche, neppure tramite accordi, non possano indebitarsi né ricorrere a derivati con finalità speculative e (soprattutto) ha fissato un tetto agli investimenti in una singola banca pari ad un terzo dell’attivo patrimoniale della fondazione.

Forse non lo ricordate, ma la Fondazione MPS fu autorizzata ad indebitarsi per sottoscrivere uno dei tanti aumenti di capitale di Banca MPS, per non perdere il “prezioso” controllo su di essa. Il ministro dell’Economia che autorizzò la moltiplicazione del rischio a livelli catastrofici era un raffinato intellettuale, implacabile critico della globalizzazione e della governance europea, di nome Giulio Tremonti, che ancora oggi ci delizia dagli schermi con i suoi moniti neo-umanisti. Ma sono dettagli.

Torniamo ai giorni nostri. Ieri, il CEO di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, ha criticato pubblicamente la necessità che la Compagnia di San Paolo debba scendere al fatidico limite del 33% nella banca, motivo per il quale ha effettuato una cessione per lo 0,95%, gestita da Goldman Sachs, e lo ha fatto con queste parole:

«Avrei trovato ragionevole posporre il tempo in cui veniva richiesto di adempiere a tale obbligo», dice. «Non vorrei mai che tra qualche anno dovessimo trovarci alle prese con la messa a punto di un golden power nel settore bancario», visto che «in Italia abbiamo una capacità di sottovalutare quanto possa essere strategico il mantenimento di noccioli duri italiani»

Messina sventola sotto il pavido naso della politica la futuribile esigenza di attivare il “veto di stato” a qualche straniero che pensasse di portarci via Intesa Sanpaolo. Questa scelta strategica va in direzione opposta a quella che sta perseguendo Jean Pierre Mustier a Unicredit, quella di una public company destinata ad aggregarsi a livello europeo in un ipotetico merger of equals. Forse perché l’epoca dei campioni nazionali è tramontata. Messina pare ignorare questo dato ed anche il percorso di devastazione che ci ha portato sin qui. Che accadrebbe in ipotesi di nuove forti richieste di capitale al sistema bancario, se la Compagnia di San Paolo non avesse i mezzi necessari? Ma soprattutto, perché decidere che avere un terzo di patrimonio della fondazione bloccato su una banca è una diversificazione sufficiente?

Sappiamo che la funzione di utilità di Intesa è quella di aumentare e massimizzare il payout in dividendi ai propri azionisti. Oggi la strategia è sostenibile, domani non si sa. Ma Messina insiste: fare scendere sotto il 33% il patrimonio delle fondazioni

«È una regola che andava bene per Mps, ma forse bisognerebbe valutare anche che se questa banca è una delle più redditizie d’Europa e difficilmente le Fondazioni potranno trovare investimenti con ritorni maggiori, allora forse posporre il tempo in cui si chiedono questi interventi lo avrei trovato ragionevole»

Certo, se la Fondazione MPS fosse stata costretta, con la forza della legge, a non avere tutto o quasi il patrimonio impegnato in MPS, forse ora sarebbe ancora viva e utile al suo territorio. Risulta poi piuttosto incomprensibile l’argomentare di Messina: “Intesa Sanpaolo è molto redditizia, perché vendere ora?”. Oh bella, forse perché vendere “sulla forza” è sempre un criterio igienico, quando si ha un portafoglio poco diversificato? A parte queste considerazioni “gestionali”, e sperando che i consulenti di risparmio di Intesa Sanpaolo siano più consapevoli del concetto di diversificazione, è evidente che a Messina non è andata giù la mancata acquisizione di Generali, che avrebbe creato il famoso “campione nazionale” nella bancassicurazione, non senza problemi non lievi di missione strategica, e quindi lancia messaggi alla politica. Ma sarebbe utile non perdere mai di vista il risk management, soprattutto quello delle fondazioni. Anche se Intesa Sanpaolo è effettivamente molto ben gestita e redditizia. Ma affermare che la Compagnia rischia di non trovare investimenti con redditività comparabile (o superiore) a quella della banca conferitaria, pare lievemente sopra le righe.

Nel frattempo, forse sarà meglio non invitare il dottor Messina a far parte di qualche comitato/commissione sull’educazione finanziaria.

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