di Luigi Oliveri
Egregio Titolare,
visto che sui media la questione dei centri per l’impiego è ancora di stretta attualità, questi pixel si lanciano, senza rete, a provare a rispondere alle delicatissime domande che Ella ha posto a chiusura del precedente post sul tema.
La prima domanda è: “cosa garantisce che questi due miliardi annui (ed oltre, forse) non finirebbero nel gigantesco sciacquone dei progetti pubblici senza analisi ex ante ed ex post e l’unica occupazione creata non sarebbe quella dei dipendenti dei centri?”.
La risposta non può che essere secca, riferendosi ai dati disponibili oggi (si ribadisce, oggi): nulla garantisce che i 2 miliardi di cui si parla per il potenziamento dei centri per l’impiego non siano ennesima spesa pubblica improduttiva.
Il perché di questa risposta, forse tranciante, è semplice: appunto fin qui dei due miliardi ci si è solo limitati a parlare. Manca totalmente, ad oggi, qualsiasi pianificazione dell’investimento, tanto che è ancora non è chiaro se si tratti di una spesa una tantum (se così fosse, meglio desistere da subito, non servirebbe a nulla).
Dunque, l’assenza di un piano rivela che, sempre ad oggi, non si sia appunto svolta nessuna analisi ex ante dell’efficacia dell’idea.
Come dice, Titolare? Cosa si potrebbe pensare di fare? Alcune umili idee. La spesa di due miliardi (il perché di questa quantificazione non è noto) intanto, come detto sopra, ha senso solo se continuativa; ci avvicinerebbe a medie di spesa finalmente paragonabili a quelle affrontate dai Paesi nostri competitori. Ma, immaginare di utilizzarla tutta per assumere solo nuovo personale è sicuramente poco producente.
Intanto, ci si dimentica sempre che tra il 2019 e il 2022 500.000 dipendenti pubblici andranno in pensione, circa il 17% del totale. Questo accadrà, forse con percentuali maggiori, anche nei centri per l’impiego, colmi di personale assunto con la legge 285/1978, la mitica legge sull’occupazione giovanile (di giovani che tali erano 40 anni fa…).
Dunque, tra breve vi sarà un’emorragia fortissima di dipendenti: occorre, allora, pensare intanto ad attrezzarsi per fermarla. Sia detto per inciso: ancora si parla (Anpal per prima) di circa 8.000 dipendenti in servizio nei centri per l’impiego. Questa cifra è sbagliata: è riferita al 2016, quando ancora non erano visibili i nefasti effetti della legge Delrio sulle province (alle quali appartenevano i centri per l’impiego). I dipendenti, a seguito dei trasferimenti e pensionamenti forzati dalla disastrosa riforma delle province, sono poco meno di 7000, oggi.
Ma, si ribadisce, pensare solo ad assumere personale non porta da nessuna parte. Certo, i poco meno di 7.000 dipendenti a fronte dei 110.000 della Germania fanno capire il baratro che separa la gestione dei servizi per il lavoro in Italia da Paesi che considerano in tutt’altro modo questa fondamentale funzione. Tuttavia, il personale da assumere andrà formato e molto profondamente, data la fortissima specificità della funzione. Dunque, occorre prevedere investimenti molto ampi e duraturi sulla formazione.
Inoltre, se il personale non viene dotato di strumenti efficienti, resterà poco produttivo. Occorrono investimenti profondi in computer, tablet, smartphone, firme digitali, stampanti, ma soprattutto reti veloci, forti, applicativi web strutturati che consentano facilmente negoziazioni da remoto, portali di interscambio di domanda e offerta, porte di dominio per la condivisione dei dati dei centri per l’impiego tra loro e tra questi ed Inps, servizi sociali dei comuni, anagrafi della popolazione.
E ancora, servono denari per attivare call center a servizio di cittadini e imprese, arredare i centri per l’impiego con layout razionali e comuni, per consentire subito di dare un’identificazione omogenea e riconoscibile. E altri investimenti occorrono per migliorare le sedi, messe a disposizione, svogliatamente e con poche risorse per la manutenzione, dai comuni.
In sostanza, dei due miliardi, non oltre la metà dovrebbe essere investita sul personale: spese importanti debbono essere affrontate per il funzionamento.
Andiamo al secondo quesito: le funzioni dei centri per l’impiego “potrebbero essere svolte da strutture private accreditate oppure siamo di fronte ad un caso di fallimento del mercato?”.
Questa, caro Titolare, è la domanda delle domande. La risposta meriterebbe tomi e tomi, che, del resto, sul tema sono già stati scritti.
Un recente tweet del Prof. Michele Tiraboschi considera “deludente” il rapporto Anpal sullo stato dei servizi per il lavoro nel 2017 perché esprime “una visione pubblicistica dei servizi che esclude gli operatori privati accreditati”.
Il tema delicatissimo è quello dell’analisi del mercato del lavoro e delle sinergie tra servizi pubblici e privati.
Posizioni radicali non sono idonee. La struttura del mercato del lavoro non consente di strutturare servizi solo pubblici o solo privati.
Partiamo dall’ipotesi di “fallimento del mercato”. Il problema sta nei prodotti che il mercato tratta. Il privato non può non essere prevalentemente interessato – quando investe in proprio – a lavoratori facilmente spendibili: altamente scolarizzati, già specializzati, tendenzialmente di età tra i 30 e i 40 anni. Portali di successo per l’incontro domanda/offerta spesso sono rivolti non a disoccupati, ma a persone che intendano cambiare lavoro, mettendo a frutto la propria professionalità in altre aziende.
Ma l’offerta di lavoro (che è rappresentata dalle persone che cercano; la domanda è delle aziende) è ben più segmentata: vi sono giovani appena diplomati senza alcuna esperienza lavorativa, disabili, donne che rientrano dopo anni ad accudire la famiglia, anziani over 50, stranieri che non conoscono bene la lingua, lavoratori iper specializzati in settori in crisi totalmente da riqualificare e formare, lavoratori disoccupati da troppi mesi. In questo caso, i privati intervengono per la ricollocazione, ma sostanzialmente solo se vi è un progetto pubblico, con tanto di incentivi e risorse pubbliche. È il caso dell’Assegno di Ricollocazione: le risorse dell’assegno non vanno ai lavoratori coinvolti (che, del resto, percepiscono la Naspi), ma ai soggetti privati (potrebbero anche essere, però, gli stessi centri per l’impiego, se così decidano i lavoratori) che ricollochino i disoccupati.
Insomma, le politiche del lavoro, cioè i progetti tesi ad aiutare il collocamento di chi da solo non ce la fa, non possono che essere sorrette da investimenti comunque pubblici.
Dunque, il privato che interviene nelle politiche pubbliche, per quanto abbia natura privatistica, è comunque una fonte di spesa pubblica, che si attiene a regole e format operativi pubblici. Di fatto, è un agente contabile, soggetto a responsabilità erariali.
Ma anche quando il privato sia disposto a farsi coinvolgere in politiche pubbliche di aiuto ai disoccupati, ovviamente ragiona per budget ed obiettivi di fatturato: è disponibile ad intervenire per un limitato numero di lavoratori e, potendo, sempre scegliendo quelli più facilmente “piazzabili”.
Quindi, concludendo, caro Titolare, il mercato, se inteso come libero scambio tra soggetti solo privati, certamente da solo non riesce ad aiutare chi cerca lavoro. Il mercato è fortemente asimmetrico. Dunque, soggetti pubblici capaci di intervenire sia per fare da regìa degli interventi sinergici dei privati accreditati, sia per garantire un diritto in forma universale, come quello all’aiuto alla ricerca di lavoro (fondato, è bene ricordarlo, da chiarissimi principi posti dalla Costituzione), sono necessari. Senza la pretesa, però, di un monopolio.
_________________________
Leggendo le considerazioni di Luigi, che tornano dopo nove anni a testimonianza della persistenza di alcuni topoi italiani, mi colpisce il dato sulla riduzione prevista nei prossimi anni del numero di dipendenti pubblici. Sarebbe una enorme opportunità per cambiare radicalmente i processi, probabilmente con minore fabbisogno di personale; oppure per espanderli, se necessario farlo, a parità di organici. Temo che non avremo né l’una né l’altra soluzione ma le solite corse alle assunzioni, se i conti pubblici lo permetteranno. Interessante la segmentazione per profittabilità del mercato del collocamento, che pare dare un senso alle politiche pubbliche per segmenti di domanda a bassa marginalità. Sarebbe già un grande passo in avanti riuscire a imbastire una qualche forma di programmazione ed analisi ex ante, magari studiando le best practices degli altri paesi. Del resto, siamo o non siamo quelli che si sono sciacquati la bocca per anni con la provinciale e surreale aspirazione a riprodurre la costosissima flexsecurity danese? Sognare non costa nulla, dopo tutto. (MS)