Forse avrei dovuto evitare il punto interrogativo, a dire il vero. Ma questa è la conclusione, per nulla sorprendente, a cui arriva uno studio di Thiemo Fetzer, professore associato di Economia all’Università di Warwick e pubblicato su Vox.
Usando dati a livello regionale su spesa pubblica e comportamento elettorale, oltre a sondaggi a livello individuale, e la letteratura già esistente sul tema, l’autore giunge alla conclusione che le politiche di stretta fiscale sul welfare, adottate dal 2010 dai governi a guida Tory, sarebbero alla base dell’esito del referendum del giugno 2016.
La spesa aggregata per welfare e protezione sociale è diminuita in termini reali del 16% dal 2010. A livello disaggregato per voce, la spesa reale per istruzione si è contratta del 19% mentre quella sanitaria è rimasta invariata in termini reali nel periodo ma di fatto le prestazioni sono state erose, visto che l’invecchiamento della popolazione tende a produrre pressioni spontanee all’aumento di spesa. Per contro, la spesa reale per pensioni non ha fatto che aumentare, in conseguenza sia dell’evoluzione demografica che dell’assurdamente generoso sistema di indicizzazioni (il cosiddetto “triple lock“), che è garanzia di espansione senza controllo della spesa.
L’aspetto più interessante dello studio è quello che consente di porre in relazione andamento della spesa pubblica reale e comportamenti elettorali. Per ottenere il quale si è compiuta un’analisi a livello distrettuale. Qui la spesa reale pro-capite, dal 2010 al 2015, ha visto un crollo del 23% ma con forte variabilità locale, con i tagli maggiori nelle aree più povere.

Uno studio del 2013 stima che le misure contenute in quella che resta la maggiore riforma di welfare degli ultimi anni, il Welfare Reform Act del 2012, sarebbe costato ad ogni britannico un taglio medio di benefici di welfare pari a 440 sterline, con un picco di 914 a Blackpool e un minimo di 177 sterline nella City di Londra. Probabilmente la più odiata, tra le iniziative contenute nel Welfare Reform Act, è quella ribattezzata Bedroom Tax, cioè la penalità che taglia i benefici per chi vive in abitazioni sovradimensionate rispetto al nucleo familiare.
Per farla breve e brutale, lo studio scopre che i voti per lo UKIP sono aumentati nei distretti dove la spesa pubblica reale per welfare ha subito i maggiori tagli.
Ovviamente, a pesare su frustrazione e proteste non c’è solo l’austera riforma del welfare. Tra le altre cause si citano il commercio internazionale, che avrebbe colpito duramente la componente di manifattura con minori skills; l’immigrazione non qualificata; l’automazione, che concorre a comprimere i salari più bassi; lo sviluppo della gig economy e l’evoluzione del mercato del lavoro verso forme di part time involontario ed intermittente, che nel Regno Unito è rappresentato dai cosiddetti contratti a zero ore, cioè a chiamata, hanno spinto un numero crescente di persone verso integrazioni di welfare. Se si rimuovono quest’ultime, ecco che la realtà dei working poor ricomincia a picchiare duro.
Quindi, in questo studio il taglio del welfare viene identificato come il catalizzatore di forme di protesta elettorale che hanno premiato il partito che ha identificato, in modo rozzo e del tutto fallace in termini di causalità ma efficace sul piano della comunicazione, la Ue come la causa prima dell’impoverimento di ampi strati della popolazione.
Il resto è cronaca e quasi storia, con la reazione a catena che ha spinto David Cameron (autore di questa controriforma di welfare) ad ingaggiare la Ue per togliere l’acqua alla vasca in cui nuotavano Nigel Farage ed i suoi. La cosa, come noto, è ampiamente sfuggita di mano ma si può dire senza tema di esagerare che tutto è iniziato col famoso “rimpatrio” di 350 milioni di sterline a settimana, da Bruxelles verso il National Health System. Che errore capitale.
Una tragica fallacia, che però ci serve per identificare alcuni insegnamenti. In primo luogo, che avere una moneta propria serve a poco e nulla. Aggiungiamo alla lista di lamentazioni anche il fatto che, nel post crisi, i salari reali britannici sono quelli che hanno perso di più in Ue, assieme a quelli greci. Però, visto che il mondo è fatto di tradeoff (tranne che per i magliari che ne negano l’esistenza), la contropartita di questo impoverimento è stato il raggiungimento e mantenimento di tassi di occupazione stellari, quelli che vengono esaltati dai sopracitati magliari, che non perdono occasione, nella loro patologica monomaniacalità, di imputarli alla “indipendenza” del cambio. Ma dietro questo boom di occupazione ci sono anche masse crescenti di working poor, dipendenti da welfare e credito al consumo per mantenere i propri standard di vita.
Se le cose stanno in questi termini, cioè se la Brexit è figlia della protesta contro globalizzazione e tagli di welfare, uscendo dalla Ue le cose potrebbero migliorare? Domanda retorica e risposta ovviamente negativa. Chiunque pensi che, rimpatriando il saldo attivo di contribuzione alla Ue, si schiuda una radiosa era di denaro a pioggia per welfare, ha capito assai poco. Se invece volete rispondere alla globalizzazione, provate col protezionismo e fatemi sapere.
Come sempre, il populismo propone soluzioni semplici a problemi complessi. Solo evitando di applicare tali “soluzioni” si potranno evitare autentiche tragedie. A volte viene sadicamente da augurarsi che questi “esperimenti” giungano a realizzarsi, per permettere ai loro sostenitori di calarsi nel mondo reale e rispondere alle vittime dei loro proiettili d’argento. Le quali verosimilmente risponderebbero fuor di metafora e con pallottole di metallo assai meno nobile.