Lo scorso 1 ottobre, il Giappone ha alzato l’aliquota Iva da 8 a 10%. L’occasione è stata propizia per cercare di spingere i giapponesi ad usare maggiormente le carte di pagamento, il cui tasso di utilizzo, nel paese del Sol Levante, è tra i più bassi del mondo sviluppato. Alla fine, esiste una sorta di marketing delle policy, in giro per il mondo. Cioè un catalogo di iniziative da cui trarre ispirazione. Ed il Giappone non fa eccezione, così come il nostro paese. Anche se successo o fallimento risiedono spesso nelle modalità di attuazione.
Il problema del Giappone è simile a quello dell’Italia: una popolazione sempre più anziana e profondamente riluttante (per non dire avversa) all’uso della moneta di plastica. La quota di pagamenti effettuati in modalità cashless è di circa il 20% del totale, superiore a quella tedesca (15%) ma lontanissima da quella sudcoreana (oltre il 90%) e cinese (60%), almeno secondo dati della lobby nipponica dei pagamenti elettronici.
Per questo il governo di Tokyo si è dato un cronoprogramma per giungere al 40% entro il 2025, anno in cui si svolgerà il prossimo Expo ad Osaka, e portarsi nel lungo termine a 80%. Ma perché passare al cashless? Le motivazioni tradizionali sono legate alla riduzione della popolazione ed alla necessità di aumentare la produttività. Si stima che i costi diretti ed indiretti delle transazioni in contanti, legati soprattutto al ruolo di cassieri, siano pari a oltre 70 miliardi di dollari annui.
Che fare, quindi? Incentivare l’uso della moneta di plastica. E come? Destinando una quota del gettito aggiuntivo Iva a premi per chi usa le carte. Al costo di circa 2,5 miliardi di dollari sino al prossimo giugno, è stato creato un sistema a punti che dà diritto a premi ed è incentrato sulle transazioni presso piccoli negozi. Ai quali sono offerti incentivi sul costo di installazione di terminali ma continuano a lamentare gli alti costi delle commissioni. Come vedete, non s’inventa nulla.
Si stima che i giapponesi detengano oltre metà dei propri attivi in liquidità e depositi, e tale quota cresce negli anziani. I quali rifiutano l’uso della moneta di plastica, tra le altre motivazioni, perché sentono di non poter controllare adeguatamente gli esborsi. Nel senso che con le carte (ed i cellulari) pare si tenda a spendere senza troppi vincoli. In altri termini, l’assenza di attrito nelle transazioni elettroniche tende a preoccupare soprattutto i soggetti anziani, oltre al timore di perdere il cellulare.
Restano elementi di freno all’adozione del cashless su vasta scala: oltre alla anziana demografia del paese, che agevola la tesaurizzazione, i tassi negativi o nulli ed una rete capillare di bancomat agevolano il mantenimento dell’uso del contante.
Dal primo ottobre, giorno di entrata in vigore del rialzo Iva, si è effettivamente registrato un balzo delle transazioni con carta presso negozi e ristoranti, ma con scontrino medio piuttosto contenuto. Resta da capire se gli incentivi saranno reiterati e se l’innovazione nelle abitudini di acquisto tenderà a permanere.
Come si diceva, queste sono una sorta di best practices utilizzate dai governi in giro per il mondo per favorire l’uso della moneta di plastica, con motivazioni che variano dal contrasto all’evasione fiscale (come fatto dal Portogallo, tra i primi ad adottare il sistema incentivante di lotterie e cashback) all’aumento di produttività e riduzioni di costi per il sistema bancario.
Ma pare esservi una sorta di denominatore comune: l’adozione di schemi di incentivo all’uso della moneta di plastica viene finanziata da un aumento delle imposte sul consumo, che forniscono la copertura per gli incentivi da erogare ai consumatori.
L’Italia ha rinviato per l’ennesima volta le sanzioni sul mancato uso dei terminali di pagamento: è dal 2012 che, nel paese del Milleproroghe, si procede con questo farsesco obbligo senza sanzioni. Tra alcuni mesi partirà comunque la lotteria degli scontrini, almeno così pare, mentre per il cashback c’è da attendere.
Il fatto di non essere riusciti ad aumentare l’Iva per precostituirsi un “tesoretto” da distribuire e redistribuire alle clientele ha messo sabbia negli ingranaggi, ritardando l’adozione di quanto fatto altrove. La cortina fumogena, dopo il fallimento del piano per portare a casa 5-7 miliardi di aumenti Iva, è stato il dibattito demenziale sulla riduzione, pure maldestra e sparagnina perché priva di risorse, della tampon tax.
Ma quello su cui vorrei attirare la vostra attenzione è proprio quest’ultima circostanza. Questo governo ha un disperato bisogno di fare cassa, anche e soprattutto in funzione “redistributiva”. A differenza del precedente, che puntava a farlo a deficit, ora si cerca una parvenza di equilibrio dei conti.
Si comprendono quindi le precoci dichiarazioni di membri di maggioranza ed esecutivo che vedono il 2020 come anno di presunte “grandi riforme” fiscali. Ad esempio sull’Irpef. Per accentuare la progressività della curva Irpef ci sono due modi, o un mix di essi: ridurre le aliquote minori e/o innalzare quelle più alte. Come sempre, è questione di consenso. Ci sarebbe anche un altro modo: far rientrare in Irpef la massa di gettito derivante da cedolari secche. Ma quello resta tabù perché ogni imposta sostitutiva è un gruppo più o meno corposo di elettori.
Perché vi dico questo? Perché il prossimo anno, sempre che questo governo resti in vita, si riproporrà la tensione tra chi vuole una manovra de sinistra, cioè non solo finalizzata a fare gettito ma anche a punire i redditi più alti, e chi no.
Preparatevi quindi a leggere ed ascoltare, per l’ennesimo anno, le solite canzoncine: tipo lo spostamento della tassazione dalle cose alle persone, cioè da Iva ad Irpef. Un peccato che a tali argomentazioni difetti la logica: le clausole di salvaguardia Iva sono deficit che va ridotto. Un aumento delle aliquote Iva non andrebbe quindi a ridurre l’Irpef ma il rosso di bilancio.
Continuo quindi a non capire perché giornalisti molto esperti della materia, come Dino Pesole, insistano a fare da grancassa alla malafede politica, oltre a scrivere dei veri e propri strafalcioni:
Il tabù tutto politico dell’intoccabilità dell’Iva sta provocando la sostanziale paralisi dell’intera politica di bilancio. A spingere perché si volti pagina si segnalano gli inviti che da anni vengono rivolti al nostro paese da Ocse, Fmi e Commissione europea a spostare parte del prelievo dai redditi dal lavoro ai consumi, ma anche la constatazione che un aumento ancorché limitato dell’imposizione indiretta stimolerebbe un sia pur contenuto incremento dell’inflazione. Con effetti anche sul debito pubblico che viene calcolato in termini nominali.
Ripeto: gli “inviti” di Ocse, FMI e Commissione europea a spostare la tassazione da persone (Irpef) a cose (Iva), nulla c’entrano con aumenti Iva che servirebbero solo a ridurre il deficit. Niente do ut des tra tributi, lo capite? Inoltre, trovo raccapricciante che ci sia ancora chi pensa che aumentare l’Iva serva a spingere l’inflazione e quindi a ridurre l’onere reale del debito pubblico. Siamo seri, su.
L’aumento Iva trasla sui consumatori in funzione dell’elasticità della domanda al prezzo. Il risultato finale può tranquillamente essere che a pagare siano i venditori, che quindi finirebbero a ridurre investimenti e personale. Possiamo sperare che il 2020 ci porti commenti giornalistici meno improbabili? Risposta breve: no.
La sintesi? Nel 2020 vorranno i vostri soldi. Con o senza riffe.