Sarà davvero temporanea?
Nel mese di aprile, l’economia statunitense ha creato 266 mila nuovi posti di lavoro, a fronte di previsioni per circa un milione. Premesso che un dato non fa tendenza ma spesso solo rumore statistico, il mercato del lavoro statunitense appare in una condizione peculiare: per molte metriche, è molto lontano dall’essersi messo alle spalle la pandemia; per altre, pare non averla mai vissuta. Che accadrà?
Negli Usa mancano tra 8 e 10 milioni di posti di lavoro rispetto alla pre-pandemia. Eppure l’andamento delle ore lavorate e il costo del lavoro si comportano in modo vivace, come se si fosse tornati al pieno impiego.
Ancora molti a casa
Il tasso di partecipazione al mercato del lavoro è ancora molto indietro rispetto a inizio 2020, cioè ci sono ancora molti lavoratori che non sono rientrati:
Ciò può dipendere da timori per la situazione sanitaria, aperture ancora incomplete dei centri di cura diurna dei bambini e dei sistemi di trasporto pubblico locale. Ma anche dal fatto che gli americani hanno in tasca più soldi, tra i 1.400 dollari una tantum dell’American Rescue Plan, l’integrazione di 300 dollari a settimana al sussidio federale di disoccupazione, valido sino a inizio settembre, gli assegni maggiorati per i figli a carico.
Detto in altri termini, il cosiddetto salario di riserva si è innalzato, sia pure su base teoricamente temporanea. Ciò può ridurre l’offerta di lavoro. Nel frattempo, i consumi sono ripartiti in modo molto sostenuto, grazie ai sussidi pubblici e al “disgelo” dei risparmi forzosi del periodo pandemico. Le aziende stanno cercando nuove posizioni che faticano a trovare, anche aumentando le retribuzioni offerte. A ciò si aggiunge lo strappo nei prezzi delle materie prime, a premere sui margini aziendali.
Le placche tettoniche della reflazione
Se tutto ciò appare come temporaneo, e quindi dovrebbe scongiurare il rischio che si formino aspettative inflazionistiche negli agenti economici (le imprese che fissano i listini prezzi, i lavoratori che negoziano aumenti di stipendio), ci sono in realtà all’opera elementi “tettonici” che vanno verso uno scenario più strutturalmente inflazionistico.
Tra essi, l’atteggiamento delle banche centrali e soprattutto della Federal Reserve, che ha deciso che tali aumenti di prezzo sono transitori e che non è tempo di rimuovere l’eccezionale sostegno monetario all’economia. La politica, che sta tentando di riequilibrare la divisione della torta a favore del lavoro, soprattutto quello non qualificato. La globalizzazione, che è stata un potente motore disinflazionistico ma che è in ripiegamento. La demografia, con i cinesi che stanno per decrescere, unendosi alla tendenza occidentale, Stati Uniti compresi.
Dopo i primi rialzi dei prezzi, saranno le aspettative degli agenti economici a determinare i giochi. Una banca centrale “dietro la curva”, cioè in ritardo sulla realtà, come sta ponendosi ora la Fed, potrebbe essere costretta a pestare sul freno monetario per eradicare le aspettative inflazionistiche.
In un mondo sommerso da debito, un ciclo di rialzo aggressivo dei tassi avrebbe effetti molto pesanti. Il danno ricadrebbe, manco a dirlo, su quegli stessi soggetti le cui condizioni economiche si sta ora cercando meritoriamente di migliorare. Buon ascolto.