E di garanzia pubblica un pizzichin

Giorni addietro è stato rinnovato il consiglio di amministrazione di Cometa, il fondo pensione dei metalmeccanici italiani, che gestisce 13 miliardi di euro e a cui sono iscritte 450 mila persone. Alla presidenza è stato chiamato l’economista vicino alla Cgil Riccardo Realfonzo, ordinario all’Università del Sannio e già assessore tecnico al Bilancio nella giunta di Napoli di Luigi de Magistris, che lasciò dopo solo un anno in polemica per la mancata riforma del Comune e delle partecipate. Realfonzo ha un’idea brillante per aumentare la partecipazione dei fondi pensione agli investimenti nazionali.

Il preambolo è sempre quello:

Il Recovery Plan non è la soluzione di tutti i problemi. Per spingere la crescita, bisogna convincere i fondi pensione italiani a sostenere investimenti diretti nell’economia del Paese.

Ora, io sono evidentemente piuttosto naïf ma pensavo che, in condizioni normali, i soldi andassero dove è possibile fare soldi. Nel senso che, se un investimento è appetibile, secondo valutazioni ex ante, allora troverà finanziatori. Troppo facile, dite? Forse sì. C’è anche l’immancabile lamentazione su quello che, come abbiamo più volte segnalato, ampia parte del cosiddetto establishment italiano considera un peccato mortale, oltre che una forma di disfattismo: la diversificazione degli investimenti su scala internazionale.

Le uova e il paniere oltre confine

A costoro pare incredibile che un gestore di portafoglio decida di non mettere tutte le uova nello stesso paniere, quello domestico. Anche Realfonzo, economista di ispirazione keynesiana (qualunque cosa ciò significhi) lamenta questa intollerabile ricerca di panieri fuori confine:

La previdenza complementare può contare su 200 miliardi di euro, oltre il 10% del Pil nazionale. Di questi, soltanto 4 miliardi arrivano alle imprese italiane, 30 miliardi finiscono nel debito pubblico e tutto il resto va all’estero. Purtroppo il sistema di fondi di private equity e private debt in Italia non è molto avanzato. Ci vuole altro.

Ora, io non so se il sistema di fondi alternativi sia “poco avanzato” perché all’economia italiane finisce, da parte degli investitori, la quota che ci si attende finisca in un paese che pesa poco sul Pil globale, ma transeat. E come fare, quindi, per incentivare i fondi pensione italiani “non per spirito di patria” a investire negli investimenti tricolori? Secondo Realfonzo,

[…] c’è un meccanismo di garanzia: se i rendimenti di questi investimenti fossero più bassi di quelli del Tfr, la differenza la dovrebbe colmare lo Stato, eventualmente attraverso Cassa Depositi e Prestiti.

Notevole, non trovate? Lo Stato “garantisce” i suoi investimenti (quali? Lo vedremo tra poco, per ipotesi), gli investitori “prudenti” ci mettono i soldi, e se il tasso di ritorno sull’investimento è inferiore a un hurdle rate, qui identificato non nel costo del capitale (ovviamente, visto che parliamo di investitori real money, cioè che non si indebitano) ma nella remunerazione del Tfr, Pantalone ci mette la differenza.

Garantisce Pantalone

Quindi, vediamo: gli investitori italiani accorrerebbero a finanziare tali investimenti pubblici non perché i medesimi appaiano promettenti ma perché c’è la garanzia statale. E pazienza che, così facendo, avremmo un’esplosione di debito pubblico in forma potenziale ma che potrebbe divenire reale in caso di attivazione della garanzia.

Nessun problema neppure per l’impatto sul costo del debito pubblico e sul rischio paese, secondo Realfonzo. E nessun riferimento al rischio che questa idea inietti nel sistema incentivi perversi. Del resto, obiettivo dell’economista napoletano pare essere quello di “disciplinare” lo Stato nella selezione degli investimenti, oltre che proteggere il risparmio previdenziale.

Strano, io in questa proposta vedo invece l’esatto contrario, in termini di incentivi. Anche considerando un hurdle rate annuo oggi ridicolo come quello della remunerazione del Tfr, che è pari a 1,5% più il 75% dell’inflazione. [edit dicembre 2022: e ora, con l’inflazione al 10%? Guai seri e veri, presumo]

Per tacere di altre criticità non lievi. Come fare con gli investimenti che non producono ritorno misurabile, come quelli sociali? Che andrebbero esclusi dagli obiettivi dei gestori, che dovrebbero focalizzarsi solo su quelli la cui redditività risulti misurabile entro un ragionevole grado di certezza.

Quali investimenti garantire?

Tipo quelli infrastrutturali a pedaggio? Esatto, tipo quelli. Ma già oggi c’è modo di comprendere se tali investimenti siano attraenti, al netto del rischio regolatorio. Per farla breve, questa richiesta di garanzia a tutela della redditività esclude gli investimenti monetariamente “improduttivi” e si concentra su quelli la cui redditività è invece già oggi predeterminabile con confortevole approssimazione. Non mi pare qualcosa destinato a vincere premi per la ricerca economica sulla lotta ai fallimenti di mercato.

Ma forse Realfonzo pensa a impegnare il risparmio previdenziale in attività ad alto rischio e alto ritorno atteso, tipo il venture capital, e vuole per quelle la garanzia pubblica? Peggio mi sento: il rischio sarebbe quello di vedere una proliferazione di mirabolanti progetti italiani nell’ambito delle life sciences e altre mirabilie, tutti da assistere con garanzia pubblica. In pratica, per rigettare il principio di diversificazione, si cerca la scorciatoia dei soldi pubblici.

La proposta, a dirla tutta, si inserisce a pieno titolo in quel ricco filone di richieste di garanzie pubbliche già seguito da altri, tra politici, economisti, grand commis e watchdog della nostra libera stampa, convinti che per schiodare i soldi “immobilizzati” nei conti correnti (mirabile ossimoro), serva un partenariato pubblico-privato, per rassicurare gli ansiosi risparmiatori-tesaurizzatori che i loro sudati soldini saranno protetti da tutte le brutture della realtà.

I tifosi della garanzia pubblica

Come in questa proposta di Milena Gabanelli di due anni addietro, che puntava a difendere il nostro petrolio (sic), cioè il risparmio, e impedire che gli stranieri arrivino a portarselo oltre confine, come i turisti senza Alitalia. Scriveva Gabanelli all’epoca:

Perché allora non ipotizzare che Stato e imprese possano collaborare per realizzare infrastrutture ad elevato moltiplicatore, e modernizzare il Paese coinvolgendo anche la liquidità delle famiglie. Basterebbe prevedere che parte del fabbisogno finanziario venga ottenuto da obbligazioni garantite dello Stato, e cioè un investimento talmente simile ai titoli di Stato da superare le paure delle famiglie. Un Paese prospera solo quando il denaro circola, non quando resta immobile e sterile su un conto.

Combattiamo la “sterilità” del conto corrente con una bella garanzia statale e i risparmiatori accorreranno, grazie all’elevato rating della Repubblica che li scuda dai predoni della finanza globale. Anche la proposta di Realfonzo poggia su una forma di garanzia pubblica, ormai divenuta la copertina di Linus del Bravo Keynesiano, quello che lotta contro i mali del neoliberismo.

Quanto al Fondo Cometa, le sue linee di investimento sono gestite da asset manager di rilevanza globale: BlackRock, Allianz Global Investors, Eurizon, Generali, Groupama, State Street, Credit Suisse e altri. Non si inventa nulla, mi sento di poter dire dopo oltre un quarto di secolo passato a gestire soldi altrui a livello istituzionale.

La via migliore per fare soldi, anche per il prezioso risparmio previdenziale, resta sempre quella: un paese che funzioni, con aziende vitali. La crescita seguirà. Questa continua ricerca di “garanzie” da parte di uno stato che è giunto sul ciglio del dissesto resta qualcosa di incomprensibile anche in un periodo come questo, di ritorno del cosiddetto stato imprenditore.

Foto di Nattanan Kanchanaprat da Pixabay

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