Tutto bene, i salari reali calano

Ormai da molti mesi prosegue il tormentone dell’inflazione che è “transitoria”, per citare lo spin delle banche centrali. Tesi che è funzionale a tenere fredde le aspettative di imprese e consumatori ed evitare che parta una spirale prezzi-salari in cui aumenti inseguono altri aumenti. Mancano, come noto, specifiche sulla qualificazione di “transitorio” perché tutto può esserlo, su un arco temporale adeguato. C’è anche la tesi molto progressista di una ripresa che scaldi il mercato del lavoro portandolo alla “giusta” temperatura, per riassorbire marginalità occupazionale e “risarcire” il lavoro per lunghi anni di vacche magre. Peccato che, di questo passo, l’operazione rischi di risolversi in una beffa.

Sono mesi che leggiamo le tesi di economisti di orientamento liberal e progressista, intenti a dimostrare che non c’è alcuna stagflazione né spirale prezzi-salari. Al momento, le cose stanno proprio così, nel senso che la crescita rallenta per fisiologico esaurimento del rimbalzo e per il freno delle strozzature di filiera, che per ora non paiono dissolversi. Quindi non pare esservi stagflazione, al momento.

Niente spirale prezzi-salari

Né si notano spinte salariali compensative della maggior pressione sui prezzi:

Nel frattempo, le trimestrali delle società quotate mostrano risultati da record in termini di profittabilità. La domanda sorge spontanea: come si preservano e accrescono gli utili, quando i costi delle materie prime sono in robusta crescita? Semplice: traslando quei maggiori costi a valle, sul consumatore finale.

Non sappiamo per quanto tempo ancora questa situazione potrà andare avanti, ma il combinato disposto è molto semplice: il lavoro sta subendo una erosione del suo potere d’acquisto, cioè i salari reali sono in calo.

A poco serve quindi rallegrarsi per i dati americani, che mostrano una ripresa della remunerazione dei lavoratori più poveri, come da manuale progressista. A meno di soffrire di illusione monetaria: questi aumenti salariali nominali, frutto anche del singolare e non ancora spiegato mismatch tra domanda e offerta di lavoro, restano ampiamente inferiori al rimbalzo dei prezzi.

Banche centrali più “sociali”

La tesi che guida la ritrovata sensibilità “sociale” delle banche centrali è nota: facciamo surriscaldare l’economia e riassorbiremo la disoccupazione, anche quella estrema e delle minoranze. Di questo passo, il risveglio rischia di essere ruvido.

Si fa anche presto a dire “ma questa inflazione è causata soprattutto dall’energia, che è una componente volatile dei prezzi, quindi non preoccupa”. Peccato che ci troviamo in una transizione energetica molto delicata e difficile, su cui si innestano immancabili prove di forza geopolitica da parte dei produttori di combustibili fossili, che sono i perdenti designati.

Né vale paradossalmente rallegrarsi, sempre da posizioni liberal-progressiste, per la mancanza di forza contrattuale del lavoro, che frena o più propriamente impedisce l’inflazione salariale. Le cose peraltro potrebbero cambiare, con l’introduzione più aggressiva del salario minimo ma anche di vincoli di welfare all’offerta di lavoro.

E mentre scrutiamo l’orizzonte dei dati macro per divinare l’inizio della fine dei colli di bottiglia, le pressioni di prezzo persistono. Certo, l’inflazione è un fenomeno dinamico e di flusso, per cui se i prezzi domani restassero invariati rispetto a oggi, diremmo che è pari a zero nell’unità di tempo. Ma se il nuovo livello dei prezzi risultasse permanentemente più elevato, tale da assorbire quote di reddito in precedenza destinate ai consumi discrezionali, potremmo realmente rallegrarci? Ne dubito.

“Alzare i tassi non sveltisce i container”

C’è anche un’obiezione piuttosto inconsistente: a che serve alzare i tassi o comunque stringere la politica monetaria, in questo contesto? “Alzare i tassi non farà muovere più rapidamente i container”. Verissimo, ma neppure tenerli bassi sposta container più celermente. E stimolare la domanda quando l’offerta non riesce a tenerle dietro non appare strategia particolarmente lungimirante. Peraltro, stringere la politica monetaria finirebbe col distruggere domanda e di conseguenza i container si muoverebbero meno, sino al punto da smaltire l’arretrato. Ma la domanda si distrugge anche quando il potere d’acquisto cala.

Ma chi, tra politici e banchieri centrali, vorrebbe essere additato come responsabile di un deliberata recessione, proprio ora che stiamo perseguendo l’obiettivo di “risarcire” il lavoro, almeno a parole? Molti banchieri centrali hanno scoperto questa loro sensibilità sociale anche per il timore che, agendo in autonomia sui tassi, la politica arriverebbe a privarli di indipendenza formale e sostanziale.

Possibile, ma così ragionando si perde di vista un altro fatto: che i banchieri centrali sono ad alto rischio di perdere la loro autonomia per opera dei mercati e dei loro capricci (tantrum) ogni volta che si convincono che i tassi stiano per aumentare.

Salari reali vittime delle buone intenzioni?

Tutti, o quasi, conosciamo l’antidoto all’inflazione: la produttività. Ma quest’ultima non si crea in una notte, e le restrizioni geopolitiche al commercio globale non aiutano il suo sviluppo di scala. Diciamo che il risveglio è a rischio per molti paesi. Ad esempio per il Regno Unito, dove il governo Johnson ha appena presentato un progetto di bilancio che tenta di preservare l’equilibrio dei conti durante una fase di forte inflazione con aumenti di contributi sociali che sottrarranno reddito disponibile in aggiunta a quello eroso dall’inflazione.

Il tutto in un paese la cui produttività stagna da almeno un quindicennio, come testimoniato dal pessimo andamento dei salari reali che, secondo alcuni, sarebbe alla base del processo che ha portato alla Brexit, cioè all’evento che abbatterà la crescita di lungo termine del paese. Vittime designate, le remunerazioni. La strada dell’inferno resta lastricata di ottime intenzioni, soprattutto in economia.

Foto di Mediamodifier da Pixabay

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