Il patto di stabilità in un paese traballante

Dopo la pubblicazione della proposta della Commissione Ue sulla revisione del Patto di Stabilità e Crescita, e in attesa che parta il dialogo con il Consiglio e il Parlamento, si riscontrano gli immancabili distinguo e insoddisfazioni nazionali, che sono alla base del processo negoziale successivo. Al netto di ciò, è difficile sfuggire all’impressione che qualsiasi decisione finirebbe per scontentare, che i paesi a maggior debito dovranno comunque “fare qualcosa” e che sul tavolo c’è una pesante e potenzialmente esistenziale divergenza tra paesi. Andiamo con ordine.

La premessa: non pare essere cambiato moltissimo dalla prima versione, che ho analizzato poco tempo addietro. Con grande irritazione del ministro tedesco delle Finanze, il liberale Christian Lindner, che pure aveva tentato di mettere le mani avanti mandando una letterina al Financial Times.

Traiettorie tecniche

Non mi è ancora chiaro da dove escano i numeri fatti circolare in modo informale dalla Commissione, le cosiddette “traiettorie tecniche” (?), il quadriennio durante il quale il rapporto debito-Pil dovrebbe flettere. Ma già si sono scatenate torme di analisti con pallottoliere: sono 14-15 miliardi di correzione annua del debito per quattro anni, ma se passiamo all’orizzonte settennale di aggiustamento possiamo avere uno sconto. Tutto in comode rate, insomma. Temo che l’approccio corretto non sia questo.

Ci sono alcune domande, che richiederanno risposte. Prendiamo spunto dalla disamina critica fatta da Veronica De Romanis, che è contraria alla proposta di riforma del Patto. Ad esempio, è prescritto che a fine periodo il rapporto deficit-Pil debba scendere sotto il 3%. Ma che fare se ci si trova in recessione e di conseguenza il rapporto tende ad espandersi spontaneamente, per l’operare dei cosiddetti stabilizzatori automatici? In parole povere (letteralmente), la correzione diverrebbe pro-ciclica, con tutte le criticità politiche e sociali che ben abbiamo conosciuto durante la precedente vita del patto di stabilità. O forse la regola della spesa primaria, che deve crescere meno del Pil al netto dei costi per disoccupazione, potrà aiutare a derogare.

C’è poi la questione della sostenibilità del debito, che è lo spauracchio dell’attuale esecutivo italiano, tale da spingere Meloni & c. a rinviare la ratifica della revisione del MES, avendo ormai abbondantemente oltrepassato il confine del grottesco. Qui i rilievi si concentrano sull’alea metodologica del calcolo di sostenibilità. In altri termini, al variare anche limitato delle ipotesi sottostanti, e all’estendersi dell’orizzonte di previsione, il rapporto di indebitamento potrebbe risultare da confortevolmente sostenibile a tragicamente insostenibile, con tutto quello che ne conseguirebbe in termini di reazioni di mercato. Altro che agenzie di rating.

Ma sappiamo, o dovremmo sapere, che ogni modellizzazione in economia si basa su alea più o meno elevata. Quindi questa obiezione appare utilizzabile per ogni e qualsiasi revisione del patto di stabilità. Forse per questo i tedeschi puntano su tagli pressoché meccanici del rapporto di debito. Ma anche questa non pare essere la soluzione. Trovo comunque singolare che le critiche da sponde contrapposte allo schema della Commissione si incentrino sul presunto eccesso di discrezionalità della stessa, ma per motivi opposti.

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La discrezionalità della Commissione si rileva anche da altri aspetti: ad esempio, la classificazione dei paesi a rischio per entità dell’indebitamento. Resta, ma rivisto, lo spartiacque del 60% di rapporto debito-Pil e si introduce il concetto di rischio “sostanziale”, quello che fa scattare in automatico la procedura di disavanzo eccessivo, ma senza dettagliarlo operativamente. Quindi c’è margine negoziale, cioè politico, che è quello che i tedeschi guardano come un toro guarderebbe una muleta. Questo margine di ambiguità terminologica, più o meno costruttiva, si ritrova anche nel termine “plausibile” col quale la Commissione indica l’obiettivo di riduzione del rapporto d’indebitamento al termine del periodo di “programmazione”.

C’è poi una considerazione di Veronica che mi pare interessante. In molti, compreso il sottoscritto, hanno definito la riforma del Patto come una sorta di PNRR con un MES attaccato. Nel senso che ci si basa su rapporti bilaterali tra stato e Commissione, e c’è la metodologia di misurazione della sostenibilità dell’indebitamento. Secondo De Romanis, questa interpretazione è fallace:

Il NGEU [Next Generation EU, ndPh] utilizza debito europeo mentre le regole di bilancio limitano quello nazionale. Inoltre, ripetendo il modello NGEU, la Commissione acquisisce il potere di esaminare le riforme di un determinato Paese. Si tratta di un potere di valenza politica, a meno che si ritenga che le riforme siano generalmente di natura tecnica.

Un paese in attesa di un “incidente”

Ma il debito europeo diventa “proprietà” nazionale quando messo all’opera e le riforme di un paese sono comunque assoggettate a esame di Bruxelles, preventivo e successivo. Senza contare che dovrebbe essere ormai acquisito che ci sono delle linee guida sulle riforme che limitano la possibilità per i governi di fare “altro” e chiamarlo “riforme”. Che fare, quindi? Tornare alle regole meccaniche tanto care ai tedeschi? Se la strada della “proprietà” nazionale dei percorsi di aggiustamento apre un nuovo vaso di Pandora, meglio qualcosa di “stupido” e automatico a taglia unica?

Unica certezza, per quanto mi riguarda, è che un paese ad alto debito e bassa crescita sarà sempre a rischio di essere spinto oltre il ciglio del burrone. Oppure che sia esso stesso a fare il passo decisivo, magari facendo passare quel gesto come conseguenza del “vincolo esterno”.

Vedremo l’evoluzione del “trilogo” tra Commissione, Consiglio (stati) e parlamento europeo. Quello che appare di tutta evidenza, allo stato attuale, è che se nel 2024 passerà questa versione della revisione del Patto, l’Italia non avrà margini indolori per fare le riforme a cui aspira il governo Meloni. Che, diciamola tutta, riforme non sono. A meno di credere che mandare in pensione più gente prima del tempo in un paese in depressione demografica sia definibile come “riforma”. Oppure credere che ridurre la pressione fiscale sia il modo migliore per staccarsi da terra tirandosi per le stringhe. In realtà, tagliare le tasse a deficit è la strada più breve per il suicidio (vero, Liz?), mentre farlo a saldi invariati implica una redistribuzione che sbatte contro le resistenze dei colpiti. Quindi non è fattibile.

Poi, troveremo sempre orfani e vedove del deficit, convinti che sia l’unica cosa che tiene in piedi questo paese, altrimenti è “austerità”. Un ragionamento che dovrebbe mettere i brividi ai soggetti senzienti che hanno il passaporto tricolore.

Il punto vero è che siamo e restiamo un paese ad alto rischio di “incidente”, proprio per la combinazione di alto debito e bassa crescita. A prescindere da patti di stabilità e altre costruzioni barocche. Possiamo consolarci dicendo che è un complotto delle agenzie di rating contro il meraviglioso e rivoluzionario governo di turno, ma sarebbe la solita risposta italo-pavloviana.

Soprattutto, è utile aver presente che il DEF sta già tracciando un percorso di forte austerità, con la sostanziale invarianza della spesa nominale per personale e acquisti della pubblica amministrazione, che vuol dire un vero e proprio crollo in termini reali. Quando si tratterà di tradurre questi numeri in cruenta realtà, potremo quindi cogliere l’occasione per tornare a dare la colpa agli “ottusi burocrati di Bruxelles”.

Un attimo, direte voi: e la “pesantissima e potenzialmente esistenziale divergenza tra paesi” di cui scrivi a inizio post? Che sarebbe? Avete ragione, stavo scordando. Si chiama Francia. Il cui debito-Pil è sopra il 110% e che sta rapidamente sviluppando una marcata sensibilità al concetto di “austerità”. Occhio, quindi, a questa divergenza. Che, non a caso, cade in un periodo di rapporti non facilissimi tra Parigi e Berlino. Perché, se sulla finanza pubblica viene meno l’asse tra i presunti dioscuri d’Europa, possono accadere cose molto interessanti, e temo non altrettanto piacevoli.

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