Lavoro impoverito, non solo salario minimo

di Luigi Oliveri

Egregio Titolare,

la questione del salario minimo è estremamente delicata e fluida, ma certamente da affrontare in qualche modo.

La diffidenza verso la fissazione di un minimo per legge avanzata da molti ha le sue giustificazioni. Vi sono due rischi. Il primo è lasciare alla discrezionalità delle forze politiche di volta in volta in maggioranza la decisione del se e del quanto ritoccare periodicamente i minimi: potrebbe anche non accadere mai.

Il secondo, consiste nella certificazione della perdita del ruolo delle parti sociali ed in particolare dei sindacati nella fondamentale funzione di conciliare interessi dei lavoratori e dei datori, che non sono sempre tutti gli stessi nei vari settori di mercato. La capacità di contrattare in base alla consapevolezza del ruolo del lavoro entro una determinata produzione in un certo segmento di mercato in astratto consente contratti con minimi adeguati, specie se si tiene conto dei principi dell’articolo 36 della Costituzione.

Trent’anni di “moderazione salariale”

Tuttavia, veniamo da oltre 30 anni di “moderazione salariale”, frutto degli accordi del 1992 e da un simmetrico periodo di politiche industriali, il cui risultato è sotto gli occhi di tutti. L’arretramento costante del potere d’acquisto dei redditi da lavoro, la produttività quasi ferma, il dilagare di forme di lavoro intrinsecamente poco retribuito, non tanto e non solo per i minimi contrattuali, ma per forme di part time forzato (che nascondono formidabili elementi di “nero”), lavori e singhiozzo, forme “flessibili” fuori controllo. Tra esse, anche, tirocini sostanzialmente falsi, come le false partite Iva, cioè lavori subordinati trattati come autonomi e dunque privati di una serie di tutele, dalla malattia alle ferie agli stessi versamenti contributivi a fini pensionistici.

Qualcosa, quindi, passando dall’astratto al concreto evidentemente non funziona. E lo dimostrano proprio le dinamiche della contrattazione. Giusto tutelarla a difesa del fondamentale ruolo dell’intermediazione sociale. Tuttavia non si può fare a meno di ricordare che anche la contrattazione è affetta da un gravissimo problema: i rinnovi contrattuali giungono sempre, ormai, con ritardi per altro più prolungati col passare del tempo.

La principale e più valida tutela del salario, quindi, risulta in effetti poco efficace: quando si rinnovano contratti di un triennio due, tre o quattro anni dopo la scadenza, quel rinnovo non può certo essere adeguato agli indici dei costi della vita che nel frattempo hanno corso di più.

Finché si è stati in periodi di bassa inflazione queste gravi disfunzioni della contrattazione sono quasi passate sotto traccia: ora sono deflagrate.

Fa un po’ pensare che tra le soluzioni ipotizzate in questi giorni vi sia quella di concedere “premi” alle aziende qualora i contratti siano rinnovati tempestivamente. Come dire che il ritardo è evento normale, tollerabile, connaturato, mentre la puntualità talmente eccezionale ed unica, da meritare addirittura un premio.

Tra proposte che rischiano di apparire dirigiste e ipotesi risolutive abbastanza bizzarre, rimedi ve ne potrebbero essere un po’ più strutturali.

Ad esempio, il potenziamento vero, gigantesco, dei servizi ispettivi del lavoro, potrebbe contribuire a dare una soluzione al gravissimo problema dei tempi parziali involontari, del “fuori busta” e del nero in generale. Non meno rilevante sarebbe un ulteriore ripensamento delle forme flessibili di lavoro: pensare di eliminare del tutto forme grigie di lavoro pseudo-autonomo pare ormai irrinunciabile. Allo stesso modo, andrebbe considerata conclusa l’epoca dei tirocini di “inserimento lavorativo”, quelli cioè non svolti entro percorsi di studio ma allo scopo duplice di consentire ai lavoratori di fare un’esperienza concreta nell’ambito di un’azienda, facilitando il contatto diretto con essa e, quindi, favorendo la possibile definitiva assunzione.

Il tirocinio è stato per lungo tempo quasi la sola politica attiva del lavoro funzionale; oggi, il Gol ed esperienze attivate dalle regioni consentono svolgere politiche attive di altro tipo. Il tirocinio non può e non deve essere una “pre-prova” o un lavoro a bassa retribuzione. Le aziende che chiedono forza lavoro, possono avvalersi del rapporto a tempo determinato, che è tornato ad essere estremamente flessibile. C’è poi il convitato di pietra, quell’apprendistato che pur essendo la forma di ingresso nelle aziende più votata alla formazione, alla conoscenza reciproca, alla capacità di mantenere la stabilità nel tempo e ad assicurare davvero le famose “tutele crescenti” ormai passate di moda, resta sempre al palo.

Indicizzare completamente la vacanza contrattuale

Tutto questo richiederebbe Governi davvero impermeabili, però, a qualsiasi pressione lobbistica. Specie se si decidesse di intervenire con minimi legali “mirati” e riferiti a situazioni particolari.

Per esempio, esattamente all’opposto dell’idea del premio alle aziende che sottoscrivono contratti collettivi tempestivamente, circostanza che dovrebbe rappresentare la banalissima normalità, un minimo legale potrebbe scattare nel caso di ritardo nella sottoscrizione dei contratti; un minimo consistente, tuttavia, in un incremento significativo (parificato al tasso di inflazione medio annuo) del minimo contrattuale scaduto. Ciò potrebbe spingere ad utilizzare in modo corretto l’autonomia contrattuale, evitando il rischio di “meline” e di contratti appiattiti su minimi più bassi di quelli già negoziati.

Certo, il rischio ulteriore è quello di comprimere eccessivamente la libertà di impresa. Tuttavia, il compito del Legislatore e degli Esecutivi consiste sempre nel trovare un punto di equilibrio tra le varie libertà.

Nell’ambito del lavoro non è raro trovare norme poste anche a limitare la libertà imprenditoriale: si pensi alla meritoria legge sugli obblighi di assunzione delle categorie protette, la legge 68/1999, la cui efficacia è particolarmente ampia nei riguardi delle imprese che partecipano agli appalti pubblici, poiché il rispetto di tale norma è requisito imprescindibile per una commessa della PA.

Allora, pensare sempre come misura speciale e settoriale di intervenire proprio nel settore degli appalti potrebbe non essere una cattiva idea. Il nuovo codice dei contratti ha mancato, purtroppo, completamente l’occasione di fornire un contributo.

Gli appalti pubblici

Infatti, è stato proposto il solito modo “all’italiana” di affrontare e risolvere i problemi. Da un lato, infatti, l’articolo 11 del codice (il d.lgs 36/2023), facente parte del complesso dei troppo fumosi e generici “principi”, prevede che le PA, dopo aver accertato con una fatica improba i contratti applicabili, nei bandi e negli inviti indichino il contratto collettivo applicabile al personale dipendente impiegato nell’appalto o nella concessione.

A questo scopo, il successivo articolo 41 del codice dispone che per determinare l’importo posto a base di gara la PA scorpora i costi della manodopera e della sicurezza dall’importo assoggettato al ribasso.

Tutto risolto? È un divieto di apportare ribassi al minimo del contratto prescelto? Neanche per sogno: da un lato, di nuovo l’articolo 11 dispone che gli appaltatori possono indicare nella propria offerta il differente contratto collettivo da essi applicato, purché garantisca ai dipendenti le stesse tutele di quello indicato dalla stazione appaltante o dall’ente concedente (e qui scattano verifiche di una complessità stratosferica per constatare tale equivalenza); dall’altro, l’appaltatore può comunque applicare il ribasso sull’importo complessivo, comprendendo i costi della manodopera, dimostrando (anche qui il rischio di probatio diabolica è ben presente) che il ribasso complessivo dell’importo deriva da una più efficiente organizzazione aziendale.

Sarebbe certamente tutto molto più lineare, logico e sensato se quanto meno per gli appalti pubblici si stabilisse un minimo legale invalicabile, tale da eliminare tutte le immani complicazioni sottese all’affidamento di un appalto e di creare condizioni di certezza e speditezza operativa, oltre che una incidenza molto significativa nel sistema.

È vero, infatti, che le imprese operanti nell’ambito degli appalti pubblici non sono tutte; altrettanto vero è che la PA movimenta circa 115 miliardi di spesa per “consumi intermedi”, circa il 6% del Pil, coinvolgendo dunque il mercato in modo molto ampio.

Metodi, quindi, per intervenire con misure almeno inizialmente non eccessivamente impattanti ma in grado di aprire le piste per affrontare in modo più deciso la questione retributiva possono esservi. Purché non si resti in mezzo al guado degli slogan o delle norme che dicono tutto ed anche il suo contrario.

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