Mi è spiaciuto, 10 anni fa, per l’assenza del Cancelliere tedesco alle celebrazioni in Normandia. Oggi non voglio nascondere la mia soddisfazione, personale e filosofica, per la sua presenza all’anniversario del D-Day.
(…) Grazie a quanti hanno permesso ai francesi di oggi di essere in grado di pensare in termini diversi da nazismo o stalinismo. Grazie a chi ha mandato in frantumi il Muro Atlantico e ci ha sostenuto fino al collasso di quello di Berlino. Senza il D-Day, oggi non ci sarebbe Europa a 6, 15, 25 o più membri.
Non è mai successo fino alla metà degli anni Settanta che un presidente della Repubblica Federale ammettesse chiaramente e distintamente che la Germania era stata “liberata” anziché “invasa” alla fine della Seconda Guerra Mondiale. E’ stato per mostrare la cruciale differenza tra queste due parole che persone (a me vicine e lontane) hanno sacrificato la propria vita a Lione, Omaha Beach, e Stalingrado.
Oggi, noi discutiamo sbadatamente di “legittimazione internazionale”. Ma l’unica e vera è stata inaugurata sulle spiagge delle Normandia. Se le Nazioni Unite, malgrado la propria consunta organizzazione, non somigliano affatto alla defunta Lega delle Nazioni, è perché i suoi fondatori a San Francisco giurarono che Giappone e Germania non sarebbero state né conquistate né colonizzate, ma semplicemente liberate dal fascismo. Da questo derivano i due principi che silenziosamente sottolineano la Carta dell’Onu, e conducono ad ineliminabili contraddizioni. Uno, il diritto dei popoli ad essere liberati, e due, i vincoli ai diritti del vincitore, che non può conquistare ma può introdurre la democrazia. Il diritto dei popoli ad essere liberati dal dispotismo estremo (il diritto al D-Day) prevale sull’abituale rispetto dei confini e su quello più datato della sovranità. In base alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e alla nostra conoscenza dei totalitarismi, il diritto essenziale dei popoli all’autodeterminazione non deve garantire né implicare il diritto dei governanti a disporre dei propri popoli. Lo sbarco in Normandia giustifica i recenti interventi in Kosovo, Afghanistan e Iraq, anche senza autorizzazione del Consiglio di Sicurezza. Per una ragione decisiva: l’originaria legittimazione che ha presieduto alla creazione delle Nazioni Unite prevale in autorità sull’ordinaria giurisprudenza delle istituzioni che da esse sono sorte. Inoltre, il recente decimo anniversario della strage dei Tutsi in Ruanda non permette a nessuno di dimenticare i terribili fallimenti delle Nazioni Unite. Né far dimenticare che il segretario generale, Annan, invoca una radicale riforma di istituzioni e legislazione internazionale.
Possono ancora gli Stati Uniti vantare un diritto di ingerenza, battezzato nel bagno di sangue per liberare l’Europa? Si, malgrado le ignominie commesse nelle prigioni irachene; moralmente intollerabili, politicamente controproducenti e strategicamente assurde, per le quali essi portano l’intera responsabilità? Si, perché al proprio meglio e al proprio peggio, gli Stati Uniti restano una democrazia. E la più esemplare. L’unica, a mia conoscenza, che nel mezzo di una guerra, non censura la divulgazione di crimini commessi da propri soldati. L’unica dove stampa e televisione rivelano entro poche settimane l’ampiezza dei torti e analizzano liberamente le conseguenze del disastro. L’unica dove i comitati del Congresso convocano il presidente, ministri, generali, capi dei servizi segreti e li interrogano senza reticenze e restrizioni. Permettetemi di ricordare qui che la Francia, così generosa nell’elargire lezioni, in quarant’anni non ha mai incriminato, giudicato o condannato uno dei soldati che commisero torture durante la guerra d’Algeria. Solo nell’anno 2000 i cosiddetti “eventi” (1954-1961) sono stati ufficialmente definiti “guerra” dal parlamento. E’ stato solo cinquant’anni dopo la fine dei giochi, nel 1995, che il Presidente ha ammesso le responsabilità della Repubblica per quello che è accaduto tra il 1940 e il 1945. E ancora oggi, a 10 anni dagli avvenimenti, e a differenza di Belgio, Onu e Washington, il nostro paese ancora rifiuta, dalla sinistra all’estrema destra, di porgere delle scuse ai Tutsi, vittime del genocidio. Questo è ciò che eleva noi, i francesi, alle vette morali inaccessibili a quei tonti di Yankee afflitti da una stampa insolente, un Senato che fa domande e dei legislatori costretti ad aprire i propri archivi e dare spiegazioni in tempo reale. Altrove, ascoltate la differenza, il silenzio regna.
Aprile 2004, primo video: tortura sistematica, corpi smembrati di presunti combattenti, piramidi di cadaveri. Secondo video: la deliberata esecuzione di una madre con i suoi cinque bambini (di età tra uno e sette anni) vicino Chatoi, in Cecenia. Due testimonianze filmate da soldati russi disgustati da quanto fatto da propri commilitoni. Un giornale di Mosca, Novaya Gazeta, è l’unico a pubblicare le foto. Nessuna reazione. Silenzio da radio, televisione, sistema giudiziario, militari e gerarchia politica, il mondo resta muto. George W.Bush è accolto dalle proteste, Vladimir Putin come un fratello.
Oggi, il cittadino americano resta l’unico ad osare giudicare e condannare i torti commessi a suo nome. L’America non è popolata da angeli, ma resta la nazione leader nel combattere per la difesa dei diritti umani, perché più di chiunque altro dà a se stessa i mezzi per rivelare e quindi condannare la loro violazione.
I diritti umani misurano la nostra capacità di resistere all’inumano, resistere al male che ci fronteggia, e al diavolo che ci portiamo dentro.
Articolo apparso sul Wall Street Journal del 4 giugno 2004