Leggende metropolitane

Ha certamente ragione, il presidente della Camera, quando afferma:

“Al di là che sia sacrosanta o inutile, la manifestazione è il disagio di una parte del movimento dei lavoratori e va sempre rispettato”.

Ha un pò meno ragione quando afferma:

“Credo che una classe dirigente seria, come noi siamo si dovrà far carico delle ragioni di chi protesta. Questa è la democrazia, che è fatta da chi va in piazza e da chi governa. Chi governa deve assumere le proprie decisioni, chi va in piazza è bene sia ascoltato”.

Questa affermazione, sulla falsariga delle dichiarazioni di altri esponenti democristian-centristi (Rotondi, Cesa), sembra far trasparire la nostalgia per i bei tempi andati della “concertazione”, quella magica congiuntura astrale che ha regalato al paese un rapporto tra debito e prodotto interno lordo pari al 108 per cento (e non al 120 per cento come scrive, nel numero in edicola da oggi, lo strombazzatissimo Economist nel suo non meno strombazzato dossier sull’Italia). In una democrazia compiuta, i voti auspicabilmente si contano e non si pesano, men che meno nelle piazze.

Ma oggi ci preme segnalare anche un piccolo particolare, quelli dove di solito il diavolo ama nascondersi. Tra gli innumerevoli frammenti d’intervista ai lavoratori, la nostra attenzione è stata richiamata dalla frase pronunciata da uno scioperante davanti alle telecamere del Tg3, e trasmessa nell’edizione di oggi alle 19:

“Io ho delle statistiche aziendali che dicono che sempre più lavoratori stanno ritirando il tfr. E non lo fanno per comprarsi la casa per sé o per i figli. Lo fanno per mettere questi soldi in banca e poterli utilizzare ogni mese, per riuscire a sopravvivere”.

Abbiamo fatto una verifica e abbiamo scoperto che, secondo la normativa vigente, ciò appare altamente improbabile, per usare un understatement.

L’art. 2120 c.c. contenente la disciplina del trattamento di fine rapporto, così sostituito ad opera dell’art. 1 della legge 297/1982, prevede per il prestatore di lavoro la possibilità di richiedere un’anticipazione del trattamento di fine rapporto spettante. La normativa è di per sé univoca nello stabilire condizioni e casi in cui tale previsione diviene effettivamente realizzabile. Presupposto imprescindibile è, innanzitutto, il protrarsi dell’attività lavorativa presso lo stesso datore di lavoro, per un periodo minimo di otto anni e tale richiesta non può essere superiore al 70% del tfr totale spettante. Ciò che caratterizza tale disposizione normativa, è indubbiamente il carattere di necessità e straordinarietà come prerogativa della richiesta di anticipazione tfr. La stessa può essere domandata una sola volta, nel corso del rapporto di lavoro.
Il datore di lavoro procede annualmente alla liquidazione delle richieste pervenute, entro i limiti del 10% degli aventi diritto e nei confronti di un numero di dipendenti che non oltrepassi la soglia del 4% dei dipendenti in forza.
La legge fa espressa menzione delle circostanze nelle quali il lavoratore può richiedere l’anticipazione del tfr: in caso di spese sanitarie per terapie o interventi, ritenuti dalla legge necessari e straordinari,oppure di fronte all’eventualità di acquisto di prima casa per sé o per i propri figli, documentato con atto notarile.

E’ evidente che, sulla base dell’attuale normativa, non esiste la fattispecie di anticipazione del tfr a motivo d’integrazione del proprio reddito corrente. E’ vero che è proprio l’ultimo comma dell’articolo 2120 c.c. a prevedere, al di fuori delle ipotesi menzionate, la possibilità di condizioni più favorevoli nei contratti collettivi o nei patti individuali, ma a noi non risultano casi di deroghe alla normativa, che peraltro produrrebbero rilevanti tensioni finanziarie in capo alle imprese. Anche per questo motivo, lanciamo un appello ai nostri lettori: se conoscete casi di deroghe alle fattispecie di anticipazione del tfr rispetto a quelli stabiliti dalla vigente normativa, in conseguenza dell’applicazione di contratti collettivi o integrativi di lavoro, segnalatecelo. A noi resta il forte dubbio che i valorosi watchdogs del Tg3 abbiano tentato di cimentarsi, nemmeno troppo subliminalmente, nella solita legend building in perfetto Falluja-style. Ma prima di affermarlo vorremmo che la nostra tesi fosse corroborata ogni oltre ragionevole dubbio. Anche per evitare l’abituale coazione a ripetere, quella stessa che oggi ha portato il consigliere d’amministrazione Rai, Sandro Curzi, storico papà di Telekabul, ad affermare che le critiche all’incompletezza e parzialità dell’informazione sarebbero parte di una diabolica strategia mirata a demolire la Rai, “dominarla e svuotarla dall’interno, affamarla e diffamarla dall’esterno. Un “attacco concentrico”, scrive Curzi, contro “Raitre, l’unico pezzo di Rai che, senza adeguate risorse, cerca di mantenere in piedi un minimo di pluralismo e di effettivo servizio pubblico”. A noi, molto più modestamente, basterebbe che i valorosi giornalisti di Tg3 e RaiNews24 si limitassero a riscontrare le proprie fonti, ed a verificare le dichiarazioni di soggetti terzi. Anche quello sarebbe un piccolo, grande passo sulla strada del pluralismo. Oltre che dell’onestà intellettuale, ça va sans dire.

UPDATE: sull’analisi della svalutazione della moneta-sciopero, e della reale consistenza del fermo di ieri, tutt’altro che memorabile, consigliamo questo ineccepibile post di Fausto Carioti.

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