Alcuni numeri tratti dall’Economist di questa settimana spiegano in modo eloquente il fallimento delle pratiche di nazionalizzazione delle risorse naturali in Africa:
700.000 tonnellate:
– La produzione annuale di rame in Zambia negli anni Settanta, al momento della nazionalizzazione;
249.100 tonnellate:
– La produzione dell’anno 2000, dopo trent’anni di cattiva gestione, sprechi e corruzione nella compagnia statale del rame;
427.000 tonnellate:
– La produzione annuale odierna, dopo che le miniere sono state cedute a KCM, una società privata indiana;
900.000 tonnellate:
– La produzione attesa per il 2008, dopo gli investimenti che KCM avrà effettuato per espandere la capacità produttiva ed aumentare la vita utile attesa delle vecchie miniere.
A cinquant’anni dall’indipendenza della prima colonia africana, la situazione del continente non è mai stata così disperata e disperante. La capacità di gestire i propri affari è più debole che mai, mentre la sua dipendenza dagli “esperti” stranieri non è mai stata tanto elevata, così come l’influenza delle Agenzie di cooperazione occidentali non è mai stata tanto pervasivamente impotente. La corruzione è endemica: difficilmente un qualsiasi paese africano dispone di funzionari pubblici sufficientemente onesti da consentire la gestione efficiente della consegna degli aiuti senza pagare o ricevere tangenti o sfruttare gli aiuti a fini clientelari.
La crociata anti-corruzione del presidente della World Bank, Paul Wolfowitz, non sembra aver finora funzionato in Africa. Vi sono due sintomi della profondità della crisi africana: la fuga di cervelli e quella di capitali. Ogni anno, 15 miliardi di dollari lasciano l’Africa: una somma equivalente agli aiuti internazionali. Circa il 40 per cento dei risparmi africani si trovano fuori dal continente, contro stime che parlano di un 3 per cento per il Sud Asia e del 6 per cento per l’Est Asia. Inoltre, ogni anno 70.000 tra i migliori cervelli africani lasciano il continente, mentre circa 100.000 “esperti” esteri giungono a lavorare in Africa. Trent’anni dopo i primi avvertimenti circa l’aggravarsi della crisi, è tempo che la World Bank riconosca la sconfitta di questo schema di aiuti, costati finora 550 miliardi di dollari. Il nuovo modello d’intervento dovrebbe svilupparsi lungo molteplici direttrici. In primo luogo, occorre sostituire i costosi piani di sostegno finanziario con micro-interventi (per entità dell’esborso) destinati tuttavia ad avere un impatto durevole e rilevante su aspettative di vita e produttività: potabilizzazione delle risorse idriche nelle regioni più povere, vaccinazioni e terapie anti-malaria di massa, libri di testo per le scuole. Occorre poi aumentare il tasso di risparmio, portandolo a livelli prossimi a quelli asiatici: in tal modo, il continente potrà contare su una base di risorse proprie per lo sviluppo, e verrà spezzato il circolo vizioso della dipendenza finanziaria dalle donazioni estere, il cui fallimento è ormai evidente. Si debbono ridurre i tempi per l’avvio di nuove imprese: oggi in Kenya occorrono sei settimane per registrare una nuova impresa (un livello peraltro non lontano dall’esperienza italiana…), contro i sei giorni di Hong Kong. Ma la creazione di un environment favorevole all’attività d’impresa deve superare anche profondi ostacoli di natura culturale. Si pensi all’esigenza di riformare il sistema di proprietà delle terre, oggi basato su meccanismi comunitari. Tra gli altri interventi riformatori, di rilievo quello che prevede l’aggiramento del corrotto sistema giudiziario locale, con la creazione di camere arbitrali basate all’estero. Solo attraverso la creazione di un bill of rights dedicato all’iniziativa economica privata sarà possibile cogliere appieno i frutti di quello che appare come il necessario passo successivo: la rimozione delle barriere commerciali e dei sussidi agricoli da parte dei paesi sviluppati.
Occorre quindi un profondo ripensamento della filosofia degli aiuti internazionali, che modifichi radicalmente qualità e quantità degli stessi. Non servono più le abituali giaculatorie buoniste, o gli schemi interpretativi muffiti che anche recentemente il nostro presidente della repubblica, inossidabile luogocomunista, ci ha dispensato. Per combattere la corruzione africana non serve aumentare il peso dei suoi regimi illiberali all’interno del Consiglio di sicurezza dell’Onu, un’idea cervellotica che poteva venire solo ad un esponente del peggiore multilateralismo relativista tipico della sinistra, quale è Napolitano. All’Africa serve un regime change ed un ricambio delle élites e la comunità internazionale, attraverso lo strumento degli aiuti, dovrebbe pensare all’adozione di meccanismi di “sterilizzazione” delle dinamiche di democrazia formale nei paesi dell’area, a vantaggio della creazione di una robusta classe media e di un ambiente propizio all’iniziativa economica privata (ne abbiamo già discusso qui). In sintesi, non è più tempo di Live Aid pelosi o di sociologismi d’accatto, come l’equazione tra povertà e terrorismo che i nostri progressisti sostengono da sempre, senza peraltro uno straccio di evidenza empirica.