La tassazione del sommerso

Secondo Bruce Bartlett, un ex funzionario del Tesoro statunitense, la politica fiscale è lo strumento con cui i governi possono ridurre gli oneri dell’immigrazione clandestina. Per definizione, infatti, i clandestini sono parte dell’economia sommersa, non rilevata nel prodotto interno lordo e che consiste di attività criminali e di produzione legale che resta tuttavia ignota al governo per evitare tasse, regolamentazioni ed altri vincoli. Negli Stati Uniti, una stima approssimativa dimensiona il sommerso a 1300 miliardi di dollari, il 10 per cento circa del prodotto interno lordo. Soprattutto, l’economia sommersa supporta l’occupazione di milioni di lavoratori, soprattutto clandestini, che non possono essere tassati con le modalità proprie dei cittadini residenti di un paese.

Infatti, i lavoratori del sommerso vengono di solito pagati in contanti, fuori dalle scritture contabili. Tali compensi sfuggono al fisco, per definizione. Per questo motivo, l’imposta sul reddito non produrrà mai molto gettito: nella realtà statunitense le imposte sul reddito pagate dalle famiglie di lavoratori immigrati irregolari (singolarmente, rispetto alla realtà europea ed italiana, è possibile essere “undocumented immigrant” e presentare la dichiarazione dei redditi) sono una quantità trascurabile, pari a circa il 20 per cento del gettito medio prodotto da famiglie di residenti ed immigrati regolari. Discorso analogo per i contributi sociali, dove il gettito proveniente dagli illegal immigrants è pari a circa il 40 per cento di quello fornito dai lavoratori “regolari”. Il discorso cambia radicalmente quando si parla di gettito fornito da imposte su vendite ed accise, come quelle su benzina e tabacco, dove gli irregolari pagano lo stesso importo medio di cittadini e resident aliens. Discorso analogo per il gettito prodotto dalle imposte statali sul reddito. Stati come la California, il cui sistema fiscale è basato in larga parte sull’imposta personale sul reddito, e dove vivono molti immigrati clandestini, sono destinati a sperimentare pressioni sui conti pubblici rispetto a quelli (come il Texas, che peraltro è privo di imposta sul reddito delle persone fisiche) le cui risorse fiscali vengono prodotte prevalentemente dalle imposte sulle vendite, che incidono anche sui clandestini.

Vi sono tuttavia anche correnti di pensiero che ritengono che, almeno nella realtà statunitense, proprio per effetto dell’operare di un curioso effetto di taxation without representation, gli immigrati irregolari siano contributori (e non prenditori) netti di risorse fiscali. L’introduzione di una legislazione unicamente repressiva dell’immigrazione clandestina potrebbe quindi produrre effetti distorsivi sia nei meccanismi del mercato del lavoro che sotto il profilo della raccolta di risorse fiscali, ampliando ulteriormente l’area del sommerso e inducendo gli illegal immigrants ad azzerare la propria visibilità fiscale, dopo aver di fatto già rinunciato a fruire dell’unica contropartita gratuita in servizi pubblici (oltre a quella rappresentata dalle cure mediche di emergenza, peraltro soggetta a requisiti di reddito minimo) offerta dalla legislazione statunitense, l’accesso alla scuola pubblica primaria e secondaria.

In Italia, da sempre caratterizzata da una forte incidenza dell’economia informale e del sommerso, alimentati anche dai forti flussi migratori degli ultimi anni, lo spostamento della tassazione da lavoro a consumi si porrebbe come interessante effetto collaterale per consentire l’aumento della raccolta fiscale complessiva: da un lato, riducendo il costo-opportunità (fiscale e contributivo) della regolarizzazione dei rapporti di lavoro, dall’altro aumentando il gettito da imposte indirette. Naturalmente ipotizzando misure correttive per attenuare o eliminare la regressività propria di questo tipo di imposte.

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