Più mercato per il calcio / 2

La legge delega sui diritti televisivi del calcio, approvata oggi dal consiglio dei ministri, prevede il ritorno alla ”contrattazione collettiva” il cui scopo, secondo il ministro Melandri, è quello di ”garantire l’equilibrio competitivo dei soggetti partecipanti alle competizioni sportive”, ma che avrà evidenti ripercussioni anche sul mercato dell’emittenza televisiva, in quanto mirato a ”realizzare un sistema efficace e coerente di misure idonee a stabilire e a garantire la trasparenza e l’efficienza del mercato dei diritti di trasmissione comunicazione e messa a disposizione al pubblico, in sede radiotelevisiva e su altre reti di comunicazione elettronica, degli eventi sportivi, dei campionati di calcio e delle altre competizioni calcistiche professionistiche organizzate a livello nazionale”.
Con la legge delega si introducono nuovi criteri per la distribuzione delle risorse derivanti dai diritti tv fra le società di calcio: in particolare, viene inserito il concetto di mutualità, in base al quale metà delle risorse vengono distribuite in parti uguali fra le squadre, la quota restante viene divisa in base al bacino d’utenza ed ai risultati conseguiti, oltre ad una quota residua per fini di mutualità generale. Il governo intende quindi riequilibrare fra le squadre le risorse derivanti dai diritti. C’è da rallegrarsi per il mancato utilizzo del decreto-legge, visto che il disegno di legge-delega prevede sei mesi di tempo per predisporre i decreti attuativi, e preserva tendenzialmente le prerogative del Parlamento. Si tratta di un meccanismo distributivo delle risorse che segue il modello inglese, e che dovrebbe riequilibrare le condizioni finanziarie del sistema. Con l’introduzione di questo meccanismo, dovrebbe ridursi la diseguaglianza di risorse finanziarie tra club riconoscendo comunque la rilevanza del bacino d’utenza nell’acquisizione delle stesse. A nostro giudizio, questa decisione contribuisce ad aumentare la stabilità finanziaria del sistema, ma dovrebbe contestualmente indurre a rimuovere le peculiarità che differenziano le società calcistiche dalle altre società che operano in regime privatistico, come da noi evidenziato e suggerito. Infatti, da più parti si segnala la peculiarità delle società calcistiche rispetto alle spa come impedimento all’applicazione integrale ed analogica ad esse del codice civile.

Basti citare l’articolo di Diego Corrado per lavoce.info, dove l’autore individua similitudini e specificità.

Se osserviamo l’evoluzione legislativa degli ultimi anni, rileviamo che la “specialità” delle società calcistiche si è notevolmente attenuata. In particolare, già all’indomani della sentenza Bosman, con l’eliminazione del divieto di perseguire finalità lucrative, e la possibilità di esercitare – oltre a quella sportiva – attività a quella “connesse o strumentali”, sotto il profilo strettamente formale, è sostanzialmente venuta meno la differenza con le spa di diritto comune.

Non è così perché l’asset di gran lunga più rilevante che queste società sportive possiedono non è iscritto né è iscrivibile a bilancio: si tratta del “titolo sportivo”, ossia il diritto, acquisito secondo le norme dell’ordinamento sportivo, a disputare un determinato campionato. Se considerato sotto il profilo patrimonial-contabile, presenta caratteristiche davvero peculiari. Da un lato, è certamente idoneo a produrre reddito, ed è dunque assimilabile a un bene immateriale, come una licenza o il diritto di sfruttamento di una proprietà intellettuale. Dall’altro, esso non è liberamente trasferibile, neppure in caso di fallimento della società titolare. In caso contrario si negherebbero i fondamentali principi che disciplinano qualsiasi attività sportiva, perlomeno in un sistema giuridico e in una tradizione come la nostra, che mal tollera l’applicazione di logiche di mercato a settori come gli sport popolari, in cui considerazioni di carattere storico-sociale e culturale mantengono un peso così rilevante. Altrove, effettivamente, non è così, come ci mostrano i trasferimenti di “franchigie” delle leghe professionistiche americane da una città all’altra; ma questa è un’altra storia.

Queste obiezioni sono superabili attraverso la proposta di cessione del titolo sportivo al Comune, e la sua acquisizione in concessione da parte del club calcistico attraverso uno scambio che può prevedere varie forme di controprestazione, quali l’utilizzo dello stadio comunale da parte del club. In tal modo, in caso di fallimento del club, l’onere ricadrebbe sugli azionisti mentre il Comune, in possesso di marchio e titolo sportivo, potrebbe individuare altri proprietari.
La negoziazione su base collettiva dei diritti televisivi e l’assegnazione del titolo sportivo all’ente locale permetterebbero l’applicazione integrale del codice civile alle società calcistiche senza bisogno di utilizzare meccanismi fortemente dirigistici e di difficile enforcement quali il salary cap, perché la sanzione per una gestione finanziaria squilibrata sarebbe il fallimento del club, senza pregiudizio per il titolo sportivo.

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