A Daniel Pipes le prescrizioni dell’Iraq Study Group di Baker ed Hamilton proprio non sono andate giù, e questo è perfettamente comprensibile. Ma leggendo questa sua intervista ad Arturo Zampaglione di Repubblica scopriamo che Pipes critica ferocemente l’approccio realista dell’ISG, salvo proporre una ricetta dal sapore antico, ed assai poco idealista:
Qual è a suo avviso il punto più debole del rapporto presentato ieri a George W. Bush e al Congresso?
“Il documento dà per scontato che i membri della coalizione, e quindi soprattutto gli Stati Uniti, siano responsabili per quel che succede in Iraq. Non è così: se gli iracheni vogliono ammazzarsi tra di loro, è una cosa terribile, ma non è affare nostro. Certo, avremmo dovuto chiarirlo sin dall´inizio, limitandoci a togliere di mezzo Saddam Hussein, a insediare un uomo forte e concentrarci sulla sicurezza del paese. Invece per tre anni e mezzo ci siamo fatti distrarre dai sogni di democrazia e libertà, con notevoli sacrifici in termini economici e di vite umane. Adesso è necessario rielaborare l´intera politica irachena in base ai nostri obiettivi strategici, tenendo presente che l´Iraq non è vitale per gli interessi americani, come invece lo erano la Germania, il Giappone e in parte anche l´Italia, dopo la seconda guerra mondiale”.
Pipes torna tuttavia improvvisamente neocon duro e puro nel rigettare l’ipotesi di negoziati con Siria e Iran, e rilancia l’esigenza di “proseguire l’opera” concentrandosi su Kuwait e Arabia Saudita. Uno strano sincretismo tra realismo ed idealismo, che conferma l’atipicità di Pipes tra gli studiosi di relazioni internazionali che vengono (spesso frettolosamente) definiti neocon. E’ tempo di ingegneria genetica anche nella politica internazionale: nuovi ceppi dottrinari stanno per emergere dall’infernale brodo di coltura del Medio Oriente.