Secondo l’accordo di riforma del welfare raggiunto dai partiti della Grande Coalizione, i contributi sociali sulla busta paga che finanziano il pensionamento dei lavoratori tedeschi sono destinati a salire dall’attuale 19.5 per cento al 20 per cento nel 2020 e al 22 per cento nel 2030. Al contempo il tasso di sostituzione, cioè l’entità della pensione in percentuale dell’ultima retribuzione, scenderà dall’attuale 54 per cento al 46 ed al 43 per cento, rispettivamente nel 2020 e 2030, mentre l’età in cui si potrà ricevere integralmente il beneficio pensionistico passerà da 65 a 67 anni. Per compensare questo ridimensionamento delle prestazioni, i lavoratori matureranno i contributi pensionistici anche in caso di aspettativa per assistere i propri familiari, bambini o anziani. Il governo fornirà anche incentivi ai datori di lavoro che assumono lavoratori ultracinquantenni.
Come si può notare, si tratta di correzioni al margine di sistemi pensionistici pubblici a ripartizione, i cosiddetti “pay-as-you-go“, che sono vieppiù destabilizzati dalle dinamiche demografiche dei paesi occidentali, e che finiscono con l’incidere pesantemente sul famigerato cuneo fiscale, riducendo il reddito disponibile per i lavoratori attivi ed al contempo aumentando il costo del lavoro per le imprese, con l’esito finale di riduzione dello sviluppo dell’occupazione e perdita di competitività per il sistema-paese.
L’alternativa a questo modello previdenziale “pauperista”, fatto di tagli ai benefici ed aumento dei contributi sociali, è rappresentato da un sistema individuale di risparmio ed investimento, in linea con i postulati della Società dei Proprietari.
Anche negli Stati Uniti è in corso un vivace dibattito sulle correzioni da apportare alla Social Security, che funziona in modo pressoché identico ai sistemi previdenziali europei. Un’analisi del Cato Institute tenta di simulare un sistema ibrido, fatto di contributi previdenziali obbligatori e risparmio individuale:
- Assumete che un lavoratore tedesco di 21 anni guadagni 38.696 dollari annui (il salario medio statunitense del 2006), lavori per 44 anni e vada quindi in pensione nel 2049;
- Quest’anno, egli pagherà contributi pensionistici pari al 19.5 per cento della retribuzione lorda, pari quindi a 7.546 dollari, inclusa la quota di contributi a carico del datore di lavoro;
- Assumendo una progressione retributiva, comprensiva dell’inflazione, pari a quella media statunitense degli ultimi 44 anni, l’ultimo stipendio annuo del lavoratore tedesco sarà pari a 340.573 dollari, sul quale egli pagherà il 22 per cento di contributi, pari a 74.926 dollari. Con il progetto di nuova legge tedesca, ed il nuovo coefficiente di sostituzione che essa implicherebbe, nel primo anno di pensionamento egli riceverà 146.446 dollari, il 43 per cento dell’ultima retribuzione annua;
- Assumiamo inoltre che egli viva per altri 25 anni dopo il pensionamento, oltre le attese.
A quanto ammonterebbe la sua pensione, in ipotesi che il lavoratore trattenga per sé la metà dei contibuti sociali e li investa nel mercato dei capitali? La risposta dipende, ovviamente, dall’andamento del mercato dei capitali nel periodo di attività lavorativa e pensionamento. Ipotizziamo che il nostro lavoratore tedesco investa tali risparmi pensionistici in un fondo bilanciato statunitense, composto per il 70 per cento di azioni e per il 30 per cento di obbligazioni.
Negli ultimi 44 anni il rendimento medio annuo di un simile portafoglio è stato del 10.86 per cento, all’incirca in linea con le medie di lungo periodo. Risparmiando metà dei propri contributi pensionistici e ottenendone questo ritorno, con l’ulteriore ipotesi restrittiva di un rendimento in calo a solo il 5 per cento annuale durante il pensionamento (per effetto, ad esempio, dell’investimento in un portafoglio privo di azioni ed investito esclusivamente sul mercato monetario ed obbligazionario, in linea con l’ipotesi del Ciclo vitale), il nostro lavoratore potrebbe accumulare sufficiente ricchezza da sostituire il 43 per cento del suo ultimo stipendio, ed accrescere la propria rendita al tasso annuale del 3.1 per cento, il tasso medio d’inflazione registrato negli Stati Uniti negli ultimi 44 anni. In altri termini, lo stesso risultato con metà del costo attualmente richiesto dal sistema previdenziale pubblico.
Sotto le ipotesi iniziali, dopo 25 anni di pensionamento, il nostro lavoratore avrebbe ancora disponibili 12.7 milioni di dollari (pari a 3.3 milioni di dollari odierni). Ciò gli fornirebbe alcune opzioni: raddoppiare il payout all’86 per cento dell’ultima retribuzione, aumentare l’indicizzazione per l’inflazione, ed avere ancora disponibili 2.7 milioni di dollari. L’unico, ineliminabile problema è rappresentato dalla volatilità annuale dei mercati finanziari, che potrebbe essere gestito aumentando la quota di obbligazioni in portafoglio (riducendo, evidentemente, il ritorno medio dell’investimento).
Piccola, inusuale nota autobiografica: chi scrive ha investito da circa sei anni parte dei propri risparmi in un fondo pensione aperto, composto al 60 per cento da azioni ed al 40 per cento da obbligazioni e strumenti monetari, ed è sopravvissuto ai crash di Nasdaq ed 11 settembre, battendo il rendimento del tfr.
Questa è l’ulteriore conferma di come sia necessario evolvere da sistemi a ripartizione ad altri a capitalizzazione, che appaiono gli unici idonei a garantire (sotto ipotesi di costanza della performance media di lungo periodo dei mercati finanziari) il mantenimento di soddisfacente potere d’acquisto delle pensioni. I correttivi adottati negli attuali sistemi pensionistici pubblici sono invece idonei a garantire l’annichilimento del potere d’acquisto delle pensioni future e a minare competitività e mercati del lavoro nel presente. Non a caso il governo tedesco ha deciso di aumentare, dal prossimo primo gennaio, l’imposta sul valore aggiunto di ben tre punti percentuali per finanziare il taglio di alcuni contributi sociali che gravano sul costo del lavoro. Anche il governo italiano ha deciso di seguire una strada simile, con l’aggravante di andare a colpire il risparmio, che è una delle determinanti di lungo periodo di crescita ed investimento, per finanziare la parziale riduzione del cuneo fiscale, anche per soddisfare l’elevato tasso di ideologismo suicida dei propri “azionisti di controllo”.
Il problema principale, nel passaggio da un sistema a ripartizione ad uno a capitalizzazione, è rappresentato dal finanziamento del deficit addizionale che la transizione creerebbe. Da tale approccio ibrido conseguirebbe una migliore gestibilità del problema, ed il reperimento delle fonti di finanziamento potrebbe essere affidato a privatizzazioni e riduzione dei costi di struttura della pubblica amministrazione.
La discontinuità deve diventare il nuovo segno distintivo delle politiche pubbliche, non è più tempo di aggiustamenti al margine. L’alternativa è il lento declino dei nostri sistemi-paese, e la loro progressiva irrilevanza nelle future dinamiche economiche globalizzate.