La Società dei Proprietari

George W.Bush ha solennemente affermato di volere che l’America diventi una società di proprietari. Prescindendo, per ora, dalla reale possibilità di concretizzare tale visione, cosa significa ciò, concretamente? E’ noto da molto tempo (ne scrisse già Aristotele) che gli individui tendono a prendersi maggiore cura delle cose che possiedono personalmente. Chi è proprietario dell’abitazione in cui vive tende ad averne più cura di chi vi si trova in affitto. Ciò non è determinato da una qualche “imperfezione” morale dell’inquilino, ma semplicemente dal fatto che il proprietario è più attento ai dettagli, quando si tratta di trarre profitto dal crescente valore della proprietà immobiliare, o di sopportarne una decurtazione causata dal rischio di suo deterioramento. Più in generale, l’estensione della proprietà privata suscita maggiore orgoglio, dignità, fiducia in se stessi. Ma ciò non si riduce ad una sorta di pulsione egoistica che nega socialità e spirito di comunità.

Secondo Geoff Mulgan, uno stretto collaboratore di Tony Blair, “la sinistra è sempre stata incline a sottostimare l’importanza della proprietà privata e quanto sia difficile, per una democrazia carente di proprietà diffusa dei beni, dirsi compiutamente tale. Per sfuggire alla povertà sono necessari dei beni, ed è necessario che tali beni vengano fatti fruttare. Di ciò vi è ampia evidenza, storica e contemporanea. La proprietà dei beni determina il maggiore orientamento al lungo periodo nell’assunzione di decisioni, ed il maggior peso attribuito all’educazione.”

Margaret Thatcher aveva in mente esattamente questo, quando decise di privatizzare il patrimonio abitativo pubblico britannico: 1.5 milioni di unità immobiliari vendute ad altrettanti inquilini, che ne sono divenuti orgogliosi proprietari. Thatcher riteneva che i neo-proprietari sarebbero divenuti più attivi e coinvolti nel preservare e migliorare la qualità della vita della propria comunità. Il valore della proprietà immobiliare tende ad essere incrementato dalla presenza diretta dei soggetti in essa coinvolti. Allo stesso modo, i cittadini possono essere stimolati a migliorare le proprie competenze attraverso l’acquisto di un altro bene fondamentale: la formazione, specialistica e permanente, nel corso della propria esistenza. Ma ciò può avvenire solo se i cittadini percepiscono di vivere in un contesto sociale che premia tale volontà di miglioramento e promozione di sé, cioè in un environment che tuteli il proprio investimento in capitale umano: a che serve migliorare ed accrescere le proprie competenze se si vive in un sistema sociale in cui corporativismi e vincoli limitano fortemente l’accesso a determinate professioni, rendendolo di fatto odiosamente ereditario, o in cui una elevata pressione fiscale disincentiva lavoro e propensione ad intraprendere?

Lo sviluppo di una società di proprietari può anche contribuire a preservare l’ambiente. Un’impresa privata di legname ha, come obiettivo primario, la riforestazione delle aree boschive da cui ricava il proprio prodotto. Si tratti o meno di genuina sensibilità ambientalista, è tuttavia certo che la preservazione nel lungo periodo delle proprie fonti di reddito rappresenta un poderoso incentivo a non depauperare le risorse naturali. Discorso analogo per il controllo dei costi indotti da esternalità negative: nell’Est Europa comunista, l’assenza di proprietà privata ed il disinteresse per prospettive di conservazione di lungo periodo degli assets patrimoniali si accompagnavano a livelli di inquinamento elevatissimi. Come scrisse nel 1995 l’allora primo ministro della Repubblica Ceca, Vaclav Klaus, “Il peggior danno ambientale si verifica nei paesi privi di proprietà privata, mercati e prezzi”.

Oggi, gli Stati Uniti hanno la più diffusa proprietà immobiliare della propria storia: il 68.6 per cento delle famiglie americane possiede l’abitazione in cui abita. Un dato tanto più interessante ove si consideri la maggiore mobilità geografica che caratterizza la popolazione attiva statunitense rispetto a paesi europei, come l’Italia, che presentano percentuali simili di proprietà immobiliare. Inoltre, circa la metà delle famiglie americane si qualifica, a vario titolo, per possesso azionario. Tale percentuale era pari al 32 per cento nel 1989 e a solo il 19 per cento nel 1983. In soli vent’anni un cambiamento epocale che ha determinato, com’era verosimile attendersi, profondi mutamenti nel sistema di preferenze pubbliche e negli orientamenti politici dell’elettorato coinvolto. Ma ciò significa anche che esiste un'”altra” America, quella a minor reddito medio, che è sprovvista di beni patrimoniali propri. In altri, ben identificabili contesti socio-culturali, questo problema verrebbe risolto tentando di redistribuire e diffondere la povertà. Negli Stati Uniti, l’idealità prevalente è invece quella di accrescere e diffondere la ricchezza ed il benessere.

Se l’obiettivo strategico è fare di ogni cittadino-lavoratore un investitore, titolare di beni patrimoniali, in grado di esercitare un controllo diretto sui fondi destinati al proprio mantenimento durante gli anni della pensione, e con un interesse esplicito e diretto alla crescita dell’economia nazionale, è necessario che i lavoratori possano trasformare i propri contributi alla Social Security in versamenti ai propri conti di risparmio individuali. Oggi, ogni lavoratore americano “invia” al governo il 12.4 per cento del proprio reddito lordo mensile (con un tetto reddituale di circa 90.000 dollari annui), sotto forma di contributi pensionistici. Su un reddito lordo annuo di 40.000 dollari, parliamo di un prelievo di 4.960 dollari. Ma non si tratta di un investimento, la cui titolarità per definizione, resta in capo al soggetto pagatore, bensì del finanziamento del sistema pensionistico a ripartizione ormai divenuto, per prevalenti ma non esclusivi motivi demografici, un infernale schema di Ponzi. Con la rivoluzione copernicana della Ownership Society ogni lavoratore, anziché attendere l’alea del momento del pensionamento, e sperare nell’erogazione di una magra pensione da parte di un sistema previdenziale pubblico che sta lentamente avviandosi alla bancarotta, eserciterebbe un controllo diretto sui propri conti di risparmio previdenziale, il cui rendimento non può essere ridotto dal Congresso. I pilastri della Ownership Society sono costituiti, oltre che da conti individuali di risparmio previdenziale e sanitario, anche dalla facoltà dei genitori di scegliere la scuola che i propri figli potranno frequentare.

Non sempre, tuttavia, i vantaggi della proprietà privata sono così intuitivamente ovvi ed immediati. Nel 1958 il celeberrimo economista di Harvard, John Kenneth Galbraith, scrisse il libro che divenne in seguito una sorta di manifesto ideologico dell’intervento pubblico nell’economia: “La società opulenta”. In esso si mettevano a confronto opulenza privata e pubblico squallore. Da un lato, risorse privatamente possedute: pulite, efficienti, sottoposte a regolare e frequente manutenzione; dall’altro, spazi pubblici sporchi, affollati ed insicuri. Galbraith giunse alla conclusione che la soluzione di riequilibrio consistesse nello spostare risorse dal settore privato a quello pubblico, anziché estendere la proprietà privata. Generazioni di studenti sono così state indottrinate a questi precetti, quegli stessi che hanno generato l’ipertrofia degenerativa dell’intervento pubblico nell’economia negli anni Sessanta e Settanta, e che ancora oggi esercitano una tardiva fascinazione sugli ideologi di casa nostra che tentano, con il consueto lag ventennale, di lasciare le teorie collettiviste per una qualche abborracciata rimasticatura “socialdemocratica”.

Un altro beneficio della proprietà privata, non immediatamente riconducibile a motivazioni economiche, è che essa tende a ridurre la concentrazione del potere. In un sistema sociale ad esclusiva o prevalente proprietà pubblica dei beni patrimoniali i cittadini non sono in grado di proteggersi dall’arbitrio dei politici. La diffusione della proprietà privata rappresenta quindi un’altra forma di lotta all’abuso dell’altrui posizione dominante, uno dei capisaldi del pensiero liberale.

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