Chi scrive ha conosciuto un giovane che dieci anni fa, poco più che adolescente, tentò il suicidio. Questo giovane era tormentato dall’incapacità di vivere la propria omosessualità. Dimesso dall’ospedale, egli decise di sottoporsi a psicoterapia. Oggi, quel giovane ha accettato la propria omosessualità, e compare in pubblico con il proprio compagno, senza alcun problema.
Questo è un caso di cui abbiamo avuto conoscenza diretta, crediamo ne esistano altri. Casi di sofferenza, anche acuta. Negare ciò equivale a negare la realtà. Possiamo chiederci cosa determini questa sofferenza ed incapacità di accettare la propria condizione. Per alcuni, essa è il frutto di irrisolti conflitti interiori, ha cioè una dimensione “privata”, nel senso che è da ricondurre al vissuto soggettivo ed alla storia individuale, inclusa quella familiare. Per altri, questo conflitto interiore sarebbe frutto dei condizionamenti che la società impone sui singoli, il sistema valoriale che è posto a protezione della riproduzione della specie. Non esiste, crediamo, separazione netta tra queste forme di condizionamento culturale, poste in un continuum dal micro al macro.
Dopo aver accertato ed accettato che non tutti gli omosessuali sono felici, allo stesso modo in cui non tutti gli eterosessuali lo sono, dobbiamo chiederci quale potrebbe essere il rapporto tra la persona psicologicamente sofferente ed il proprio psicoterapeuta. Qui dobbiamo leggere Claudio Risé. In particolare questa frase:
“A me è capitato, ad esempio, di pubblicare in questo periodo, in una collana da me diretta per San Paolo, Oltre l’omosessualità di Joseph Nicolosi. L’autore è uno psicoterapeuta che fa scandalo perché, quando un omosessuale gli chiede di essere aiutato a uscire da una condizione nella quale si sente profondamente infelice, prende sul serio la richiesta del paziente. Offrendo quell’ascolto, umile, attento e affettivo che è alla base di ogni terapia che sia tale, prima e dopo la ‘scoperta’ della psicoanalisi. Ascoltare il dolore e, così facendo, consentirgli di scoprire il proprio significato e, quando possibile, la propria trasformazione in qualcosa d’altro, più autenticamente proprio.”
Le accuse di omofobia mosse a Risé derivano proprio da questi concetti. “Trasformare il proprio dolore in qualcosa d’altro” equivale a “curare”? Risé sostiene che no, non equivale a questo. Sappiamo che il percorso psicoterapeutico è un percorso maieutico, dove l’analista “ascolta” il paziente. Il verbo ascoltare implica neutralità e non prescrittività. L’analista aiuta il paziente a prendere contatto con i propri conflitti interiori. Risé sta forse ipotizzando un intervento attivo dell’analista, che parte dall’ascolto, passa attraverso il distanziamento del paziente dal proprio dolore e giunge a “indirizzare” il medesimo verso un esito diverso dall’omosessualità? E ancora, come si pone uno psicanalista credente rispetto ad uno agnostico nel rapporto con il paziente? Scrive Risé:
“Altra accusa è quella di bigottismo: perché, ci si chiede, solo i cattolici sostengono le terapie dell’omosessualità? La verità è che anche i lama tibetani considerano ‘disordinate e dannose’ le sessualità al di fuori della coppia uomo-donna, possibilmente monogamica. E comunque tutti i terapeuti di formazione religiosa (gli evangelici, gli anglicani e gli altri) sui disagi ‘da dipendenza’ sono più attivi rispetto a quelli di formazione agnostica, che puntano solo sull’adattamento. I primi, peraltro, sono anche più efficaci: gli “alcolisti anonimi” vengono dritti dalla tradizione protestante.”
La psicoterapeuta del giovane di cui abbiamo parlato all’inizio di questo post è dichiaratamente atea. Questo ha forse “contribuito”, nel paziente, all’esito di accettazione della propria condizione? Risé sostiene che “gli agnostici puntano solo sull’adattamento“. Una frase che meriterebbe forse un approfondimento ed una interpretazione autentica da parte dello psicanalista milanese, visto l’altissimo rischio che la trasformazione dell’ascolto in prescrizione (cioè di fatto in protocollo terapeutico) segni anche il passaggio da psicanalisi a psichiatria. Gli psicoterapeuti cattolici (e, più in generale, credenti) ritengono, come ci pare Risé suggerisca, che l’attività di ascolto dell’analista non possa e non debba limitarsi all'”adattamento”, cioè all’accettazione della propria condizione, ma debba invece tentare di riportare il paziente alla condizione di eterosessuale? Oppure l’approccio di Risé è meritoriamente pragmatico, e ritiene che in alcune circostanze l’adattamento semplicemente non funzioni? Domande e temi di complessità estrema, suscettibili di malintesi e forti strumentalizzazioni, come di fatto ci pare stia avvenendo.
Da un lato, i sostenitori dei “diritti civili”, che spesso tendono ad essere portatori di una visione neocorporativa della società. Per essi non esiste L‘omosessuale in quanto persona, cioè soggettività unica ed irripetibile, ma solo GLI omosessuali, come categoria e soggetto politico. Dall’altro lato vi sono gli integralisti cattolici, che trovano forse molto tranquillizzante, dal punto di vista psicologico e politico, derubricare l’omosessualità a psicopatologia.
Come dato di fatto ormai acquisito resta, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, l’inesistenza di qualsivoglia base genetica nell’omosessualità. Ma se tale base manca, a che altro potremmo ricondurre l’omosessualità, se non al contesto familiare e culturale? Natura versus cultura, il bipolarismo che da sempre caratterizza la specie umana. Temi evidentemente troppo complessi per essere affrontati serenamente ed analiticamente, ammesso e non concesso di averne la capacità intellettuale. Men che meno sui blog che, in numero sempre crescente, per superficialità ed autoreferenzialità sembrano diventati la brutta copia dei media tradizionali. Forse converrebbe spegnere il computer, per qualche tempo, e tornare a dedicarsi a studi ed approfondimenti.
P.S. Per rispondere alla domanda che intitola il post, e sulla base di quanto letto finora, noi non crediamo che Claudio Risé sia omofobo. Continueremo a leggerlo e a cercare di comprendere, in modo laico, le sue ipotesi ed affermazioni, pur consapevoli di non essere specialisti della materia. Ad altri lasciamo i dogmi, gli ipse dixit e le teorie teleologicamente onnicomprensive; noi restiamo cocciutamente anticostruttivisti, preferendo ricorrere popperianamente alla teoria della falsificabilità.
P.P.S.: Parlando di tecnica blogghistica che consiste nel prendere un link dalla Rete, ignorarne il contenuto e appiccicarlo a tema altro, buttandola in caciara (come sempre, del resto), vi segnaliamo l’indiscusso maestro della materia. Analitico come uno slogan, acculturato come le massime dei Baci Perugina. Un giorno potrebbe pure diventare celebre, chissà. Un vero peccato che persone di ben altro spessore culturale caschino a piedi uniti nel giochetto.