Il governo Prodi è da sempre un modello di doppiezza, cinismo ed opportunismo politico di cui sarà opportuno conservare memoria. Anche in occasione dello psicodramma collettivo noto come protocollo sul welfare la tradizione è stata rispettata. E’ accaduto che la scorsa estate governo, sindacati e Confindustria hanno raggiunto e sottoscritto un accordo su una serie di interventi che complessivamente contribuiranno a determinare un ulteriore irrigidimento del mercato italiano del lavoro, per effetto della lotta senza quartiere ingaggiata dalla sinistra radicale contro la legge 30, meglio nota come legge Biagi. Oltre a ciò, l’eliminazione dello “scalone Maroni“, sostituito con una serie di costosissimi (per i contribuenti) scalini, in cima ai quali si è appollaiata anche la sostanziale rottamazione del sistema previdenziale contributivo, grazie all’ennesimo rinvio (dopo quello attuato nel 2005 dal governo Berlusconi) dell’applicazione dei coefficienti di trasformazione del montante contributivo, per determinare l’entità dell’assegno pensionistico. Ora se ne riparlerà nel 2010, dopo insediamento dell’ennesima commissione, ed è facile immaginare che la tecnica del rinvio, di cui l’Unione accusava la Casa delle Libertà per l’entrata in vigore della riforma Maroni, verrà puntualmente riproposta.
Firmato il protocollo d’intesa in un giorno che per qualcuno è memorabile (23 luglio, 14 anni dopo gli accordi noti come “politica dei redditi“, giunti ai giorni nostri attraverso molteplici interventi di ridefinizione e correzione di quella madre di tutte le concertazioni), è iniziato il tormentone sulla consultazione della base dei lavoratori presenti e passati (ma che ci azzeccheranno mai i pensionati con le politiche del lavoro resta un gioioso mistero), con la sinistra radicale ben decisa a soffiare sul fuoco del massimalismo in stile-Fiom ed il sindacato impegnato in una curiosa autodifesa. Dopo l’esito quasi plebiscitario del consenso all’accordo, Prodi si è presentato in Consiglio dei Ministri per l’approvazione definitiva del provvedimento, da inviare alle camere per la conversione in legge. Logica e buon senso avrebbero voluto che, dato l’esito del referendum, il testo fosse rimasto inalterato. Invece no.
Per ammansire la solita sinistra sindacale Prodi ha voluto strafare, elargendo qualche mancetta aggiuntiva. Ad esempio, l’eliminazione del tetto massimo di pensionamenti annuali per lavori usuranti, originariamente fissato in 5000 persone. Peccato che Prodi si sia “dimenticato” di prevedere la copertura finanziaria per tale provvedimento, ma che volete che sia questo “piccolo dettaglio”? Altro “punto minore” è quello relativo al rinnovo dei contratti a termine dopo i primi 36 mesi. Rinnovo limitato ad una sola volta, sempre accompagnati da un “esponente sindacale delle sigle più rappresentative“, s’intende. Quella era una delle tante mance destinate al sindacato. La Confindustria, che ha già dovuto ingoiare la “riduzione” delle aliquote Ires ed Irap, ha scoperto che il complesso delle modifiche avrebbe pesantemente danneggiato alcuni settori a maggiore stagionalità e ciclicità d’impiego di manodopera, ed ha alzato la voce. Seguita a ruota dalla Cisl che si è ricordata di essere da sempre la confederazione più gelosa della tradizione di libera contrattazione tra le parti sociali contro le ingerenze di governo e parlamento. Buon ultimo giunge poi Epifani, che si è accorto che il protocollo è stato destrutturato e trasformato sostanzialmente.
Perché il governo Prodi funziona così: il cerchiobottismo come strumento strategico di durata. Prima sottoscrive solennemente l’aberrazione di un tasso di sostituzione “garantito” al 60 per cento (cioè il rapporto tra pensione ed ultimo stipendio), poi fa sparire il “principio”. Prima annuncia coram populo che gli enti previdenziali saranno riunificati, ed i fantasiosi risparmi da ciò derivanti saranno destinati a finanziare gli interventi sul welfare. Poi mette una clausola di salvaguardia, prevedendo un aumento dei contributi previdenziali a partire dal 2011, nel caso (certo) in cui i risparmi da fusione degli enti previdenziali non dovessero materializzarsi. Poi, preso atto che mancano soldi per finanziare l’aumento dei pensionamenti per i lavoratori usurati, decide di procedere da subito ad aumentare i contributi previdenziali, riducendo il reddito disponibile e ricostituendo quel cuneo fiscale che aveva iniziato a ridurre. Che dire? Carta vince, carta perde.
E ora che vogliamo fare, un altro bel referendum sindacale? Sembra come nelle partite di calcio all’oratorio, dove il prete non fischia la fine finché la squadra in svantaggio non pareggia. Tranquilli, nei prossimi giorni altro vertice notturno a Palazzo Chigi con le parti sociali, ed altre mance, in attesa di nuove doglianze e nuovi penultimatum, che ovviamente non sono tutti uguali, come ben sa la sfigata setta di Torre Argentina. Ma la strategia prodiana di endurance non si esercita solo nei confronti dei propri alleati. Qualche esca viene lanciata anche al Cavaliere, come il tiramolla ormai decennale dell’assegnazione delle frequenze televisive. Qui stiamo riscrivendo la storia su carta carbone, come nel 1996-2001. Dapprima “emergenza democratica” ed antitrust all’amatriciana; poi un bel rinvio di quattro anni, l’ennesimo, sperando in tal modo di ammorbidire Berlusconi, inducendolo a baloccarsi il più a lungo possibile con i suoi mirabolanti sondaggi. L’implosione può attendere.