Della relazione di Mario Draghi all’Assemblea Ordinaria dei Partecipanti, segnaliamo alcuni passi, legati alla fiscalità ed all’intervento nel Mezzogiorno. Su efficienza economica e finanza pubblica, Draghi ricorda che “Anche in un contesto congiunturale difficile, il rapporto fra debito e prodotto deve restare su un sentiero di flessione”.
Ma il governatore ricorda anche in che modo si è ottenuto il miglioramento del rapporto deficit-pil nell’ultimo biennio:
La riduzione del disavanzo negli ultimi due anni è dovuta soprattutto al forte aumento della pressione fiscale: 2,8 punti percentuali tra il 2005 e il 2007. L’incidenza delle entrate fiscali sul PIL si colloca al 43,3 per cento, appena al di sotto del valore massimo registrato nel 1997, al culmine dello sforzo per soddisfare i criteri di Maastricht; supera di quasi 3 punti quella media degli altri paesi dell’Unione europea. Il divario rispetto agli Stati Uniti, al Giappone è ancora più grande.
In sostanza, due anni sprecati sulla strada del risanamento, inseguendo la logica emergenziale dell’inasprimento fiscale (già vista nel precedente biennio prodiano, 1996-1998), che ha finito col mettere in ginocchio il paese.
Due anni che hanno accentuato distorsioni e disincentivi all’attività economica, tradizionale effetto collaterale della forte pressione fiscale:
L’ampia dimensione delle attività irregolari rende l’onere sui contribuenti ligi al dovere fiscale più pesante che nel resto d’Europa. Per ogni 100 euro di costo del lavoro per l’impresa, il prelievo fiscale e contributivo per un lavoratore-tipo senza carichi familiari è pari in Italia a 46 euro. Negli altri paesi dell’area dell’euro il prelievo è in media pari al 43 per cento del costo del lavoro; nel Regno Unito al 34; negli Stati Uniti al 30. L’IRAP accresce ulteriormente il divario tra il nostro paese e gli altri. Nonostante la riduzione apportata nel 2008, l’aliquota complessiva di prelievo sui profitti d’impresa resta superiore di 8 punti rispetto alla media degli altri paesi dell’Unione europea.
Draghi rilancia una strategia offertista, l’unica percorribile per evitare la catastrofe. Una strategia che ha un padre nobile:
Aliquote elevate penalizzano le imprese nella competizione internazionale, riducono la propensione a investire, possono determinare distorsioni nella scelta della dimensione d’impresa. Tagliano le retribuzioni del lavoro regolare, scoraggiano l’emersione di quello irregolare. Già nel 1946, all’Assemblea Costituente, Luigi Einaudi ammoniva che “solo abbassando le aliquote vigenti e diminuendo la spinta alla frode si potrà ottenere un gettito migliore per lo stato”.
Ma riduzioni della pressione fiscale hanno senso solo se finanziate con un corrispondente taglio di spesa:
Nonostante un recente lieve rallentamento, nell’ultimo decennio la spesa primaria corrente è cresciuta in media del 2,1 per cento l’anno in termini reali, un tasso nettamente superiore all’aumento del prodotto. Per ridurre il peso del debito e alleviare la pressione fiscale non vi è altra strada che correggere questa tendenza.
Draghi indica al governo Berlusconi l’ordine di grandezza dei tagli di spesa necessari per conseguire gli obiettivi che il nuovo governo si è dato. E sono cifre da far tremare le vene ai polsi:
Nello scenario macroeconomico della Relazione unificata sull’economia e la finanza pubblica, il conseguimento del pareggio di bilancio nel 2011 e la riduzione della pressione fiscale al 40 per cento del prodotto interno lordo, nell’arco di un quinquennio, richiedono che la spesa primaria corrente scenda in termini reali circa dell’1 per cento l’anno.
Con una inflazione abbondantemente superiore al 3 per cento e prevista in ulteriore crescita, un taglio reale dell’1 per cento implicherà veri e propri colpi d’ascia su interi capitoli di spesa pubblica. Riuscirà il governo nell’impresa? Draghi conclude la sezione dedicata all’efficienza della finanza pubblica con un riferimento alla spesa pensionistica, e chiede l’istituzione di idonei incentivi per avvicinare a livelli europei il tasso di partecipazione dei seniores alla forza-lavoro:
Alcune caratteristiche del sistema pensionistico italiano tengono lontana dal lavoro una quota troppo ampia della popolazione. Solo il 19 per cento degli italiani tra i 60 e i 64 anni svolge un’attività lavorativa, contro il 33 per cento degli spagnoli e dei tedeschi, il 45 dei britannici, il 60 degli svedesi.
È ora di rimuovere i vincoli e i disincentivi al proseguimento dell’attività lavorativa per coloro che sono nel regime retributivo; ampliare i margini di scelta dell’età di pensionamento per coloro che sono nel regime contributivo; cancellare gli ultimi impedimenti al cumulo tra lavoro e pensione; incoraggiare forme flessibili di impiego, con orari adattabili alle esigenze individuali; permettere così a chi ha accumulato esperienza e conoscenze di continuare, se vuole, a metterle a frutto per se stesso, la propria famiglia, la società.
L’obiettivo di incentivare la permanenza al lavoro potrebbe essere perseguito aumentando i coefficienti di trasformazione del montante contributivo in rendita pensionistica per chi scelga di restare al lavoro dopo aver raggiunto l’età pensionabile, restando nell’ambito delle scelte volontarie. Confidiamo in una prossima iniziativa in questa direzione da parte del governo.
Ma è sul Mezzogiorno che il giudizio di Draghi è particolarmente netto, e fa giustizia di molti luoghi comuni improntati al tradizionale vittimismo meridionalista, sempre focalizzato sul “quanto” della spesa pubblica destinata al Sud, in un’aberrante logica risarcitoria, e mai sul “come”:
Sul ritardo del Mezzogiorno pesa la debolezza dell’amministrazione pubblica, l’insufficiente abitudine alla cooperazione e alla fiducia, un costume diffuso di noncuranza delle norme. Per il progresso della società meridionale l’intervento economico non è separabile dall’irrobustimento del capitale sociale.
Eppure i fondi sono arrivati copiosi, come accade da sempre:
La politica regionale in favore del Mezzogiorno ha potuto contare nello scorso decennio su un ammontare di risorse finanziarie comparabile con quello dell’intervento straordinario soppresso nel 1992. I risultati sono stati inferiori alle attese. La spesa pubblica è tendenzialmente proporzionale alla popolazione, mentre le entrate riflettono redditi e basi imponibili pro capite che nel Meridione sono di gran lunga inferiori. Si stima che il conseguente afflusso netto verso il Sud di risorse intermediate dall’operatore pubblico, escludendo gli interessi sul debito, sia dell’ordine del 13 per cento del prodotto del Mezzogiorno, il 3 per cento di quello nazionale. È un ammontare imponente; per il Sud, è anche il segno di una dipendenza economica ininterrotta. La sua incidenza non è uguale dappertutto: varia dal 5 per cento del prodotto regionale in Abruzzo al 20 per cento in Calabria.
Nonostante un tale impegno finanziario, resta forte la differenza tra Mezzogiorno e Centro Nord nella qualità dei servizi pubblici prestati, a parità di spesa. Divari si trovano in tutti i settori: dalla sanità all’istruzione, dall’amministrazione della giustizia a quella del territorio, dalla tutela della sicurezza personale alle politiche sociali, alla stessa realizzazione di infrastrutture.
Draghi non entra, ovviamente, nel merito del disegno dell’ingegneria istituzionale funzionale ad innalzare efficacia ed efficienza della finanza pubblica. Ma richiama un principio rivoluzionario, nella sua disarmante semplicità, relativo ai flussi finanziari perequativi necessari a realizzare il deamicisiano “federalismo solidale”:
La misura della redistribuzione regionale di reddito che si realizza attraverso flussi perequativi tra Stato ed enti decentrati è scelta politica; ma è necessario che le regole per determinare tali flussi siano semplici e trasparenti; che chi riceve fondi dia ampiamente conto del loro utilizzo.
Sconvolgente, vero? Come tutte le affermazioni di buon senso. E ancora:
Cardine di una sana autonomia fiscale è la stretta corrispondenza tra esborsi e tassazione: ogni onere aggiuntivo dovrebbe idealmente trovare finanziamento a carico dei cittadini cui l’amministrazione risponde. Ne sono condizioni la disponibilità di basi imponibili ampie e stabili, vincoli severi all’assunzione di debito, regole predefinite per i trasferimenti dal centro.
Parole scritte sulla sabbia? Forse. Ma di tempo ne è rimasto davvero poco. E i politici? Loro sottoscrivono tutto. Come sempre, come ogni 31 maggio. E ci mancherebbe.