In un editoriale apparso su Il Giornale, Benedetto Della Vedova propone quello che definisce “un patto repubblicano”: paghiamo tutti e subito meno tasse, anche a costo di aumentare il deficit, per porre le premesse per una ripartenza del paese. Con questa posizione siamo al contempo in accordo e disaccordo. Siamo in accordo perché è indiscutibilmente vero che in Italia esiste una pressione tributaria e contributiva assolutamente soverchiante. Anche senza avventurarci in simulazioni lafferiane, abbiamo il robusto sospetto che riducendo la tassazione l’Italia godrebbe di imponenti effetti di offerta, quanto e più degli altri paesi con i quali ci confrontiamo. Dove invece siamo in disaccordo con Benedetto è sulla possibilità di ottenere crescita attraverso una riduzione d’imposta attuata in deficit.
Non solo per le ovvie reazioni della Commissione europea e (soprattutto) dei mercati, che sono ormai iper-reattivi rispetto alla nostra finanza pubblica, come dimostra l’andamento dei credit default swap, che misurano il rischio di credito sovrano. Rischieremmo un aumento del premio al rischio che si rifletterebbe in un più oneroso (e forse problematico) classamento del nostro debito pubblico, soprattutto in un momento in cui soffriamo la pericolosissima concorrenza di tedeschi e francesi, impegnati a finanziare i loro stimoli fiscali. I consumatori, spaventati dall’aumento del rischio-paese, aumenterebbero il proprio tasso di risparmio, vanificando l’espansione ed esacerbando la recessione. Diverso sarebbe l’effetto di una riduzione d’imposta in cui il deficit di breve periodo viene finanziato con riduzione di spesa di lungo periodo, come quella pensionistica, e di questo Benedetto è (ovviamente) consapevole, quando suggerisce di usare la spesa pubblica in modo opposto alla saggezza convenzionale ed a quanto stanno facendo altri paesi da sempre fiscalmente più virtuosi di noi:
Se la spesa pubblica può essere una leva, è bene che le risorse non derivino dall’aumento del deficit ma dalla riqualificazione della spesa stessa.
Le riforme strutturali necessarie le conosciamo perfettamente: un welfare universalistico e inclusivo, la fine del mercato del lavoro duale, da ottenere riequilibrando il sistema di protezioni tra insider ed outsider, la liberalizzazione del mercato dei servizi e del sistema dei trasporti, le grandi reti infrastrutturali. Anche la pressione contributiva potrebbe scendere passando ad un sistema pro-rata per tutti, facendo aumentare il potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti. Nulla di tutto ciò sta accadendo, e quando le attuali generazioni di lavoratori iper-protetti andranno in pensione, ci troveremo con una forza lavoro dalla flessibilità vietnamita, ma forse senza più un paese dove applicare tale flessibilità.
Quello che non si può non constatare, a sette mesi dall’inizio della legislatura, è l’assenza di un riformismo “forte”, malgrado le condizioni per attuarlo vi siano tutte. Procedere per aggiustamenti incrementali di un modello economico ormai fallito è altrettanto dannoso di un eccesso di pressione fiscale, che di quel modello fallito è peraltro l’immagine speculare.
C’è una frase molto suggestiva di Rahm Emanuel, il futuro capo dello staff di Barack Obama alla Casa Bianca, che a noi piace molto: “Non possiamo sprecare una crisi come questa: è un’opportunità per fare cose importanti che diversamente non avremmo fatto”. Quella frase dovrebbe essere scolpita a lettere di fuoco nelle menti di chi guida un paese, soprattutto il nostro.