L’incudine e il martello

Il dato di produzione industriale statunitense di marzo conferma la caduta dell’attività produttiva, soprattutto nella manifattura. Dal picco siamo a meno 13,4 per cento, contro la contrazione del 13 per cento registrata nelle recessioni del 1974 e del 1958, e del 9,3 per cento del 1982. Detto in altri termini, siamo nelle peggiori condizioni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Ma la cosa non sorprende, visto che obiettivo minimale di sopravvivenza del sistema economico è quello di liberarsi dell’eccesso involontario di scorte causato dal crollo della domanda. Per conseguire questo obiettivo occorre un robusto taglio della produzione.

Il dato di Pil del primo trimestre dovrebbe scontare in diminuzione il decumulo di scorte, ed in aumento la forte riduzione del deficit commerciale,  con i consumatori in condizioni relativamente meno disastrate rispetto a quelle del quarto trimestre dello scorso anno, anche se il buco nero dell’immobiliare residenziale continua a pendere come una spada di Damocle sull’economia, e presto verrà affiancato da quello che sembra proprio avere la faccia di un incipiente collasso dell’immobiliare commerciale. L’altro dato pubblicato oggi, relativo all’indice dei prezzi al consumo di marzo, mostra una apparente deflazione sull’indice complessivo, causata soprattutto dai costi dell’energia, ma una sostanziale stabilità del dato core, cioè quello depurato delle componenti volatili di energia ed alimentari. Si naviga a vista tra Scilla e Cariddi, tra i timori di deflazione causata da un output gap che è diventato voragine e quelli di inflazione innescata nel momento in cui la congiuntura ripartirà e la Fed dovrà farsi in quattro per drenare l’eccesso di riserve bancarie ed impedire che si trasformino in una esplosione degli aggregati creditizi, e per fare ciò incorrerà fatalmente in forti minusvalenze sui titoli del proprio portafoglio, trasformandosi in agente quasi-fiscale anziché monetario, e immolando la propria indipendenza dal Tesoro.

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