Come spiegava Giulio nostro:
«E’ in atto un cambiamento radicale per cui stiamo uscendo da un mondo dominato da ideologie di mercato, in gran parte idealizzate, e variante caricaturale di quello che era davvero il liberalismo; stiamo uscendo da un mondo in cui la società era dominata da un certo tipo di consumi per beni, anche superflui, addizionali, non c’era sanzione, anzi, c’era spinta a comprarli a debito. Ora stiamo entrando in un mondo in cui quel paradigma, quel modello sociale, non sta più in piedi. Entriamo in un mondo in cui il paradigma del pendolo della storia tornerà ad essere quello del bene collettivo, del bene comune, della domanda pubblica per investimenti di interesse generale. La funzione sostitutiva della politica, che per 10-15 anni ha avuto il mercato, è finita. La politica non può essere più sostituita dal mercato. I Governi non hanno la forza temuta per eccesso di potere e non hanno neanche le risorse finanziarie per fare un eccesso pervasivo, collettivistico, dominante, di potere, ma deve tornare una visione che guarda il futuro e nel futuro vede il ruolo della politica per realizzare il bene collettivo, alternativo rispetto al mercato, che ha dimostrato un qualche tipo di fallimento» (Giulio Tremonti, 25 novembre 2008);
Il mercato ha fallito, quindi? Prima, definire mercato.
Proviamo così:
«Una prima importante considerazione, in tal senso, riguarda le cause stesse della crisi, da più parti imputata al mercato, ai suoi princìpi e valori di riferimento e alla sua asserita, strutturale inidoneità a coniugare la logica del profitto con l’interesse generale a una crescita sostenibile e a una distribuzione non sperequata della ricchezza. In questa stessa prospettiva, è stata, da più parti, rivendicata la superiorità dell’intervento pubblico e si è invocata una più estesa presenza dello Stato nell’economia, unitamente all’introduzione di vincoli più stringenti alla libertà di iniziativa economica. Questo diffuso atteggiamento appare quanto meno singolare a fronte di una crisi alla cui genesi hanno contribuito, in misura assolutamente non secondaria, scelte pubbliche errate o insufficienti; in particolare, una inefficace e lacunosa disciplina dei mercati finanziari e politiche monetarie incautamente accomodanti. Il concorso di questi errori ha prodotto una miscela perversa di opacità, conflitti di interesse e distorsioni nel meccanismo di formazione dei prezzi dei titoli» (Gianfranco Fini, 16 giugno 2009)
Registriamo con grande soddisfazione che il presidente della Camera sposa una chiave di lettura “zingalesiana” della crisi e del ruolo del pubblico in economia, inteso come regolatore e manutentore dell’infrastruttura finanziaria del mercato, la chiave di volta del sistema economico. Mentre il ministro dell’Economia da sempre si attiene rigorosamente alle sue leviataniche giaculatorie ottocentesche. E ora, via con gli ululati di esecrazione contro Fini.