Disfacimento federale

La recente “rivolta” bipartisan di alcuni esponenti politici meridionali, che puntano a creare un movimento politico (o fors’anche un vero e proprio partito) dalla caratterizzazione marcatamente localistica, ha riaperto la discussione sulla sempiterna “questione meridionale” del nostro paese. Apparentemente nulla di nuovo o di inedito, nella sostanza molto di differente, non foss’altro che per l’aggravamento della crisi fiscale che è alla base del declino del paese. La persistenza di condizioni di malgoverno nelle regioni meridionali, una classe politica affetta da cleptocrazia, la presenza di ras locali che muovono imponenti pacchetti di voti e che possono allearsi di volta in volta col centrosinistra o col centrodestra, sono condizioni ormai incompatibili con l’evoluzione dello scenario globale, soprattutto in un periodo di crisi economica profonda come l’attuale, che costringe al razionamento delle risorse. E’ questa incipiente asfissia finanziaria che ha spinto molti politici meridionali a prestare ascolto alle sirene del governatore siciliano, Raffaele Lombardo, nel tentativo di tornare a condizionare l’erogazione di risorse fiscali, contrastando il ruolo determinante della Lega Nord nel governo centrale. Queste tensioni si scaricano sul Pdl, che appare sottoposto a duplice trazione centrifuga e disgregante.

Al Nord, la Lega sta lentamente ma inesorabilmente crescendo, ed ormai Umberto Bossi rivendica apertamente la presidenza delle giunte di Veneto e Lombardia. Finora Berlusconi ha puntato sulla fedeltà dell’alleato, ed ha sempre regolarmente capitolato alle istanze leghiste, non ultima la rottamazione del referendum che avrebbe dato al paese un bipolarismo non condizionabile dai ricatti dei partner minori di coalizione. Dall’attuale tensione siciliana il Pdl, che appare un partito dal baricentro meridionalizzato, rischia di perdere un elettorato numericamente e politicamente rilevante, anche per gli eventuali effetti imitativi in altre regioni. Cosa attendersi? Domenica 26 luglio, sul Corriere, Angelo Panebianco si poneva la domanda che tutta Italia si pone, coniugandola alle prospettive dell’unità nazionale: riuscirà il Pdl a sopravvivere al suo leader carismatico e federatore? Con la crisi fiscale italiana ormai conclamata, ci si potrebbe piuttosto chiedere se il federatore sopravvivrà alle spinte centrifughe. A questo fine, il Pdl starebbe già preparando un proprio clone federale siciliano, per prosciugare l’acqua in cui nuotano Lombardo e soci. Manovra scaltra e per molti versi dovuta, ma le nozze non si fanno coi fichi secchi, e questo paese è al capolinea di un paradigma e di un “modello” di sviluppo che sta ormai volgendosi a sottosviluppo per milioni di propri cittadini.

Vale la pena rimarcare il ruolo della Lega Nord: la ragione di vita dei padani era ed è quella di minimizzare le risorse fiscali che, prodotte al Nord, si incamminavano verso il Mezzogiorno dove venivano sistematicamente immolate sull’altare del malaffare e della corruzione della pubblica amministrazione, in un contesto geografico e culturale in cui lo stato non riusciva (e tutt’ora fatica) ad affermare e mantenere il monopolio dell’uso legittimo della forza e la tutela dei diritti di proprietà. La Lega Nord, oggi, è un partito che potremmo definire “localmente centralista”, corporativo al limite del protezionismo. Non è un partito liberista, né ambisce a rompere monopoli pubblici locali nella misura in cui il loro mantenimento è funzionale ad acquisire risorse necessarie a consolidare il proprio potere sul territorio. Il fantomatico federalismo fiscale, di cui si conosce solo la cornice in attesa dei dettagli, appare in larga misura un modello di finanza derivata e non autonoma, con maggiore redistribuzione di risorse verso le regioni più ricche. L’impressione è che la Grande Recessione stia anticipando le dinamiche politiche che erano attese nel momento dell’avvio operativo del federalismo fiscale.

Quale futuro attende il Pdl? Antonio Martino, liberista frustrato dall’involuzione statalista di Forza Italia prima e del Pdl ora, ed attento osservatore (oltre che potenziale attore) della gestazione di un partito del Sud, continua a sostenere che gli italiani avrebbero votato Berlusconi perché “volevano il cambiamento“. La storia degli ultimi quindici anni sembra contraddire decisivamente questa ipotesi-auspicio. Il Pdl nasce come forza neodemocristiana e corporativa (all’epoca della Balena Bianca si chiamava, assai nobilmente, interclassismo), ma priva delle visioni e della capacità di innovazione che la Dc riuscì a dare al paese. Ciò accade sia perché la Guerra Fredda è finita ma soprattutto perché oggi non ci sono più soldi da spendere. La realtà sembra invece contraddire gli auspici di Martino: gli italiani continuano ad eleggere Silvio Berlusconi quanto più quest’ultimo si muove verso posizioni politiche sclerotizzate ed immobiliste.

Martino dà la colpa del mancato cambiamento al ruolo del ministero dell’Economia, che avrebbe l’ultima parola anche sul volere del premier, ed all’attuale ministro, Giulio Tremonti, che definisce “politicamente e tecnicamente strabico”, perché troppo incline ad assecondare ogni richiesta della Lega, e perché conservatore nel senso di non disposto a mutare la bizantina legislazione fiscale del paese. Per Martino, invece, servirebbe una drastica semplificazione delle norme tributarie, per eliminare i loopholes, allargare la base imponibile e ridurre le aliquote, stimolando l’economia dal lato dell’offerta. Martino solidarizza col Mezzogiorno, che si è visto sottrarre prima dal governo Prodi e poi dall’attuale le risorse da destinare ad investimenti infrastrutturali, bruciate sull’altare della spesa corrente. Mentre concordiamo incondizionatamente sulla proposta di semplificazione fiscale ed istituzionale, con la soppressione di province ed enti locali inutili, dissentiamo dalla premessa. Il problema di questo governo non è Tremonti. Il problema, e Martino si ostina a non vederlo, è Berlusconi e la sua incapacità di riformare il paese, preferendo gli effetti speciali e la realtà virtuale fatta di codazzi di adoratori di ogni specie. Martino prima o poi si renderà conto che quello di Berlusconi “rivoluzionario liberale” è solo un suo wishful thinking.

Nel frattempo, assistiamo con crescente inquietudine alla deriva del Mezzogiorno, che dovrebbe essere “salvato” da quegli stessi notabili-termiti che da lustri lo stanno spingendo verso l’inferno. Tra non molto tempo potremmo avere un “federalismo da disfacimento finale” del paese, come quello descritto da Roberto Scarpinato nel libro “Il ritorno del Principe“, di cui riportiamo un passaggio che rischia di essere profetico. Siamo nel periodo 1992-93, quello delle stragi di Capaci e via D’Amelio e della successiva strategia “libanese” di Cosa Nostra, con le bombe a Firenze, Roma e Milano. Si apre una trattativa tra Stato e Antistato, che avrebbe incluso l’ipotesi di

«Creare un nuovo soggetto politico finalizzato a dare vita a un quadro nazionale di alleanze per realizzare una riforma federale dello Stato. Tale nuovo soggetto doveva essere una Lega meridionale, costruita sul modello della Lega Nord già esistente, nella quale fare confluire gran parte del consenso elettorale in libera uscita dai contenitori politici tradizionali ormai in disfacimento della Prima Repubblica. La Lega meridionale si sarebbe presentata alle elezioni conseguendo un significativo numero di parlamentari che si sarebbe sommato a quello già elevato della Lega Nord, allora in piena ascesa. L’alleanza tattica tra le due leghe avrebbe dato vita ad una forza politica in grado di fare da ago della bilancia dei futuri equilibri e di imporre una riforma federale dello Stato.
Tale riforma si proponeva di disarticolare il paese in tre macroregioni, simili a stati autonomi, con un proprio presidente, una propria polizia, una propria magistratura, un proprio sistema tributario. La macroregione del Nord si sarebbe liberata della zavorra di un Meridione incapace di reggere le sfide dell’economia globale e si sarebbe agganciata al carro dell’Europa. Il Meridione sarebbe stato abbandonato alle mafie e a una economia alternativa. Quella criminale e quella tipica dei porti franchi: defiscalizzazione, case da gioco e paradiso offshore per tutti i capitali del mondo. La Sicilia, in particolare, si candidava a essere una sorta di Singapore del Mediterraneo.
In questo quadro, Cosa Nostra avrebbe conseguito non solo l’impunità per il passato, ma anche il controllo politico-economico della Sicilia, ottenendo così dai registi del piano politico-eversivo ciò che non era più riuscita ad ottenere dai referenti del vecchio ordine politico i quali “avevano voltato le spalle” o perché caduti in disgrazia o per opportunismo»

Nel 2009, la Lega Nord non ha più bisogno della sponda di una Lega Sud, avendo ormai raggiunto la stanza dei bottoni. Tutto il resto è ancora sinistramente attuale.

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