Lo stallo e il declino

Nella giornata di ieri uno dei peones del Pdl, Mario Pepe, ha presentato un subemendamento al ddl intercettazioni per sopprimere la proposta di modifica fatta dal governo e che riduce ”il bavaglio” alla stampa. Il subemendamento è stato presentato a titolo personale, ma avrebbe incontrato il gradimento di molti all’interno della maggioranza, dopo che il premier aveva espresso “delusione” per le modifiche al testo.

Il ballon d’essai è durato poche ore, visto che nel pomeriggio di ieri Pepe non si è presentato al momento del voto in commissione giustizia per sostenere il proprio emendamento. Già questa vicenda dà la misura dello stato confusionale esistente entro il Pdl. O forse di una dialettica tra Pdl, Quirinale e presidenza della Camera (il Pd non lo contiamo, essendo un ectoplasma), in cui a far la parte del confuso pare essere soprattutto il premier.

Passi per il signor Nessuno che presenta un subemendamento in commissione, magari solo per compiacere il Gran Capo; ma è davvero difficile immaginare un premier che si dice “deluso” per un negoziato condotto in prima persona dal Guardasigilli sulle modifiche da apportare al testo del ddl intercettazioni. Ma abbiamo imparato che non bisogna mai sopravvalutare la razionalità degli attori coinvolti. Se il testo del ddl è così deludente, che motivo c’è per approvarlo di sprone prima della pausa estiva, manco fosse una misura di rilancio dell’economia, di quelle che attendiamo vanamente da oltre due anni? I lettori ci perdoneranno questo indugiare su quelli che restano dettagli di una stagione politica in cui, dopo aver toccato il fondo, stiamo ormai scavando di gran lena, malgrado la canicola.

Restano alcune costanti, a questo lento tramonto del berlusconismo: la narrativa di ostacoli titanici che si frappongono tra il premier ed il suo desiderio di modernizzare un paese riottoso e diviso in consorterie di vecchi arnesi della politica (questa è un classico per tutte le stagioni), che sono pure “traditori” ed “ingrati” (la categoria dell’impolitico per antonomasia); il “liberalismo” che promana da Palazzo Chigi-Grazioli assediato dalle forze del male; l’occasione epocale di civilizzare un paese brulicante di comunisti. Anche questa l’ennesima replica di un canovaccio che va in scena da quasi vent’anni. Ma chi ha deciso di credere a queste letture non potrà essere convinto del contrario.

Nel frattempo il Cavaliere si è definitivamente lasciato alle spalle anche la più esile retorica di riforme economiche liberalizzatrici, avendole sostituite con uno stucchevole ottimismo, lasciando la supplenza di politica economica al “vitalismo” di Sacconi ed alle fiabe di Tremonti, in quest’ultimo caso subendo i tagli, più che guidare il processo e metterci la faccia. Tutto il contrario di quanto accade in altri paesi, dove il capo del governo fa proprie  le proposte di politica economica, anche nel momento dell’austerità (vedi il piano “sangue sudore e lacrime” di David Cameron). Sullo sfondo, i cedimenti ad una Lega che rappresenta ormai il peggio della vecchia politica, con in più il venir meno anche della finzione di essere coerenti con proprie posizioni, espresse solo poco tempo prima.

Qui da noi, a oltre due anni dall’inizio della legislatura, abbiamo avuto solo miserrimi spin su improbabili modifiche alla prima parte della Costituzione, nel nome di un liberismo declamatorio e sterile, un minuetto indecente sulle fu-Authorities ed una alacre attività di smantellamento di quegli embrioni di liberalizzazioni che avevano visto la luce nella precedente legislatura, e che già ci parevano una presa in giro. Ma evidentemente in questo paese non esiste limite al peggio. Nel mezzo, tra una sconcertante inerzia sull’economia ed un dibattito surreale sulla “giustizia” e su un paese dove la gente avrebbe paura a telefonare c’è innegabilmente un processo di progressiva decomposizione del Pdl, del quale si tende ad incolpare Gianfranco Fini, ma che ormai vede circa una ventina di correnti e correntine neo-feudali che si guardano in cagnesco, nell’eterno equilibrio instabile tra ingraziarsi il Capo ed essere sospettate di lavorare per il “dopo”.

Come possa una simile entità restare ancora in vetta alle preferenze dell’elettorato sembra un mistero, ma non lo è. Basta guardare cosa c’è dall’altra parte. Dal vecchio irrancidito, rappresentato dai ricorrenti proclami (che sono in realtà segnali criptati) di D’Alema, al “nuovo che basta e avanza”, quello di Vendola, che in molti già definiscono “berlusconiano” per la retorica simbolica che profonde nei suoi comizi. Non sappiamo come Vendola stia governando la Puglia, pare non male; di certo candidarsi a guidare un paese è cosa ben diversa.

Ma dalle prime frasi da palcoscenico nazionale che gli abbiamo sentito pronunciare, c’è ben poco da stare allegri. La difesa conservatrice del posto di lavoro e non del lavoratore; la Fiom già elevata ad icona di un operaismo ideologico morto e sepolto; la definizione frusta, da rivoluzionario fuori tempo massimo, data di un povero ragazzo a cui, in un caldo giorno di luglio, ha dato di volta il cervello per l’ultima volta nella vita.

E mentre i cortigiani si azzuffano furiosamente, resta l’evidenza di una situazione economica che, con grande ottimismo, possiamo definire fragile. Non ci sarà probabilmente bisogno di una manovra aggiuntiva nel secondo semestre del 2010, ma con questa cosiddetta “crescita”, che lascia ai paesi sviluppati un buco permanente di gettito fiscale, la prossima primavera saremo daccapo. Ma si tratta di tempi biblici per la politica in generale e per quella italiana nello specifico, soprattutto in questo momento.

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