Calcio subprime

Per il Barcellona, un debito di gruppo di 544 milioni di dollari, contro i 405 milioni dell’anno precedente. Una perdita di esercizio, per l’anno 2009-2010, di 95 milioni di dollari (circa un quinto del fatturato). Sarà anche il primo anno di una nuova gestione, quella di Sandro Rosell, ex dirigente della Nike, e in questi casi è regola che il nuovo management tenda a fare emergere perdite vere e presunte con la revisione delle poste contabili.

Di certo la minusvalenza prodotta dalla cessione di Zlatan Ibrahimovic dopo solo un anno, non inferiore a 40 milioni di dollari (solo sul movimento di cash, senza contare che nel pacchetto di scambio con l’Inter c’era anche Samuel Eto’o, quotato intorno a 29 milioni di dollari), ricorda la disintegrazione dei valori immobiliari, altro recente prodotto dell’economia spagnola.

Ma Rosell e i suoi uomini non sembrano eccessivamente preoccupati: il club catalano riesce ancora ad ottenere agevole (e politico) credito dal sistema bancario spagnolo, sotto la disarmante argomentazione che la società è un eccellente generatore di cassa. L’unica verità è che nel mondo del calcio continua a mancare un equilibrio strutturale sui flussi di cassa, tra incassi ed esborsi, anche per i club più avanti sulla strada della diversificazione delle fonti di reddito (merchandising, diritti televisivi globali, gestione immobiliare). Leggere che le situazioni finanziarie di club vincenti come il Barça vengono aggravate dal pagamento dei bonus, che dovrebbero invece essere sempre e comunque legati alla compatibilità economica, fa un effetto straniante.

In attesa delle mitologiche regole Uefa sul Financial Fair Play; sempre che non facciano la fine di Basilea 3 o della “riforma” bancaria di Obama.

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