Su lavoce.info, Massimo D’Antoni, Simone Pellegrino e Alberto Zanardi tentano di fare il punto sullo stato di avanzamento dei lavori federalisti dopo l’approvazione, lo scorso 4 agosto, del decreto legislativo che contiene lo schema di devoluzione ai comuni di una serie di imposte statali che oggi gravano sugli immobili.
Nella prima fase verrebbero devolute ai comuni l’Irpef per la parte relativa ai redditi fondiari, l’imposta di registro e di bollo, l’imposta ipotecaria e catastale, più l’imposta sostitutiva sui canoni di locazione immobiliari introdotta dallo stesso decreto. Quindi l’unica variazione rispetto al passato consiste nella cessione dallo stato ai comuni di alcune imposte specifiche, quelle immobiliari. Il sistema, quindi mantiene la propria natura derivata.
Il primo problema causato dalla natura delle imposte cedute è quello della necessità di perequare le forti differenze tra aree territoriali. Per ottenere ciò si introduce quindi un fondo perequativo di tipo orizzontale, cioè con flussi di trasferimento dai comuni “ricchi” a quelli “poveri”, ribaltando l’approccio oggi in essere, che prevede una perequazione verticale, dallo stato ai comuni. Questo accrocchio rappresenta, nella migliore tradizione italica, una soluzione “provvisoria”, in attesa della creazione del famoso fondo perequativo vero e proprio previsto dalla legge delega, quello in cui non è stato chiarito il concetto fondamentale di “capacità fiscale“, anche perché mancano ancora i costi standard delle funzioni degli enti locali.
Altro aspetto distintivo di questo federalismo all’amatriciana è il fatto che viene fissato un tetto massimo alle risorse generate con la cessione dei tributi immobiliari locali, e la differenza viene quindi girata dai comuni allo stato, in misura determinata dall’ultima manovra correttiva. Ribadiamolo: questo a voi sembra un esempio di autonomia fiscale o è piuttosto un’accentuazione della natura derivata della finanza pubblica locale?
Riepilogando: vengono cedute ai comuni le imposte immobiliari, quindi cambia il tipo di derivazione fiscale ma non la filosofia di fondo del sistema: ciò significa che le funzioni dei comuni saranno comunque vincolate alla disponibilità di risorse ad essi esogene, perché mancano i costi standard; il tutto attendendo di capire come accidenti sarà possibile smorzare la folle variabilità di gettito di imposte quali la ipotecaria, la catastale e quella di registro. Da un casino all’altro, in sintesi.
Questo è il federalismo ubriaco che i nostri eroi della maggioranza stanno plasmando. Essere contrari ad una simile aberrazione significa iscriversi al partito della spesa pubblica clientelare e meridionalista o rifiutare la tessera del partito dei demagoghi economicamente analfabeti?