Sul Wall Street Journal, Jason Zweig racconta di come la storia economica e finanziaria degli Stati Uniti tenda a ripetersi: nel 1936, come parte della riforma introdotta dal nuovo Banking Act, il governo federale statunitense vietò alle banche da esso regolate di detenere titoli che non avessero lo status di investment grade (il livello non speculativo di qualità creditizia) certificato da parte di almeno due agenzie di rating. Vi ricorda nulla?
Un economista di origini ungheresi dell’Università di Chicago, Melchior Palyi, denunciò l’irrazionalità di una simile regolazione, poiché i dati storici indicavano un elevato tasso di dissesto tra gli emittenti di questa categoria, spesso manifestatosi già nel primo anno dal collocamento di un titolo, a testimonianza della fallacia delle metodologie utilizzate dalle società di rating. Per Palyi era inaccettabile ed inconcepibile che il compito principale dei banchieri (l’analisi del profilo creditizio di un debitore) venisse demandato alle agenzie di rating.
Ma un’abile manipolazione dei dati promossa dalle autorità federali ed avallata da alcuni accademici disinnescò le critiche di Palyi. Il quale, tra l’altro, era fortemente avverso alla proprietà immobiliare universale (considerandola tra le altre cose un elemento di attrito al riequilibrio del mercato del lavoro), criticò aspramente le operazioni di mercato aperto della Fed (precursori dell’odierno easing quantitativo) ed ammonì reiteratamente che l’eccesso di debito avrebbe fatto crollare l’intero sistema economico.
Un altro esempio di uomo che visse nel futuro. Delle due l’una: o negli Stati Uniti vive da sempre un’elevata concentrazione di veggenti; oppure i forti interessi dei regolati finiscono col prevalere sull’evidenza empirica e sul buon senso.