Il giorno dopo l’epocale consiglio dei ministri che ha partorito il nulla in termini economici e la conferenza stampa di un premier furibondo contro la magistratura eversiva, il compito degli editorialisti economici questa mattina non si presentava per nulla facile. Da un lato c’è (o dovrebbe esserci) il desiderio di segnalare che il re è nudo (ironia deliberata), dall’altro ci sono equilibri da rispettare, come insegnano i ripetuti tentativi marcegagliani di cantarne quattro all’esecutivo, che di solito durano lo spazio di alcune ore e vengono puntualmente seguiti da rettifiche, precisazioni, smentite, invii di trascrizioni e richiesta di moviola in campo.
Tra i pochi che si sono cimentati nell’analisi, Dario Di Vico sul Corriere ricorre ad una nel complesso modica quantità di cerchiobottismo, accreditando l’esecutivo di aver “elaborato una ricetta” per il problema della crescita inesistente, anche se la ricetta probabilmente è scritta con inchiostro simpatico; Di Vico si dimostra pure indulgente quando concede “non pretendiamo che Silvio Berlusconi scimmiotti all’improvviso il suo omologo inglese David Cameron“. La domanda sorge spontanea: ma perché, poi, Silvio Berlusconi non dovrebbe “scimmiottare” David Cameron? Forse perché, dal 1994 ad oggi, ha dichiarato di voler scimmiottare Reagan, Thatcher, Blair e (più recentemente, per involuzione della specie) Putin, Nazarbaev e Lukashenko, ed è riuscito ad essere solo Silvio Berlusconi, cioè un caratteristico ganassa milanese?
A parte questi sofismi, Di Vico coglie nel segno quando segnala che, in questa ennesima frustata mediatica, “manca qualcosa che assomigli ad una visione compiuta dello sviluppo italiano”. Forse perché, secondo l’esecutivo, l’economia italiana va già bene così? Di Vico segnala quello che a nessuno è sfuggito, e cioè che Tremonti non si è intestato la manovra perché doveva prendere un treno. Premesso che è difficile intestarsi una manovra che, semplicemente, non esiste, la domanda sorge spontanea:
«Perché la via lunga della modifica costituzionale dell’articolo 41 piuttosto che approvare in tempi (che sarebbero) strettissimi il disegno di legge sullo Statuto d’Impresa presentato da Raffaello Vignali, deputato Pdl nonché stretto collaboratore del ministro Paolo Romani?»
Già perché?
Sul Foglio, Francesco Forte preferisce analizzare le 41 controproposte del Pd, trovandone non poche interessanti, pur con la critica che in molti casi si tratterebbe di regolamentazioni e non di liberalizzazioni. Il titolo del pezzo di Forte contiene un’involontaria ironia, visto lo sprint che caratterizza le “proposte” dell’esecutivo, molte delle quali continuano a non vedere la luce (legge sulla concorrenza), oppure la vedranno a gennaio 2012, confermando che trattasi di frustata pietrificata, come del resto tutto il paese, dal dibattito pubblico ai numeri dell’economia.
In altri articoli di approfondimento, il giornale diretto da Giuliano Ferrara enfatizza che la modifica dell’articolo 41 della Costituzione servirà da grimaldello contro il potere d’interdizione delle regioni, che spesso fungerebbero da frenatori di iniziative che partono dal centro. Non siamo costituzionalisti, ma se il problema sta nel Titolo V della Carta, non si capisce che c’entri il 41, che fa parte del Titolo III. A questo riguardo è utile segnalare che ieri, nella vivace conferenza stampa che ha fatto seguito al consiglio dei ministri, nessun riferimento è stato fatto alla eventuale modifica dell’articolo 118, che del titolo V è architrave. Forse perché, volendo informare la riforma costituzionale a principi di sussidiarietà, verticale e (soprattutto) orizzontale, pare brutto togliere funzioni agli enti locali e riattribuirle al centro statale?
Il problema è che, se si vuole progredire, occorre affrontare e sconfiggere le contraddizioni. A meno di voler giustificare ad ogni costo un’iniziativa bislacca e fatua, e non sarebbe la prima volta. Poiché la vita è fatta di aspettative, e la vita pubblica italiana è sempre più simile al canovaccio narrativo del Deserto dei tartari, il Foglio attende l'”euroscossa” di Tremonti al vertice europeo del mese prossimo, quello in cui c’è il rischio (molto basso, se volete i nostri due centesimi) che si decida un preciso orizzonte temporale di convergenza verso il limite del 60 per cento del rapporto debito-Pil. Circostanza che segnerebbe la fine pressoché immediata della classe politica italiana e l’avvento di un “governo del governatore” che cambierebbe davvero il volto del paese.
Per farvela breve, qui non c’è nulla da vedere, circolare.