Quarant’anni fa oggi, Richard Nixon poneva termine al regime di convertibilità aurea del dollaro, dopo che lo sforzo bellico in Vietnam aveva causato agli Stati Uniti un forte deficit commerciale, mentre la forte espansione monetaria riduceva la copertura aurea del circolante in dollari (fissata a 35 dollari per oncia, da cui discendevano tutti gli altri cambi, in un serpentone valutario globale), rendendo sempre più nervosi gli altri paesi, che giunsero in misura crescente (De Gaulle, soprattutto) a chiedere la conversione in oro di proprie posizioni in dollari.
Il tentativo di puntellare il cambio del dollaro su valori ormai incompatibili con i fondamentali dell’economia aveva già spinto, mesi prima, la Germania ad uscire dal regime di Bretton Woods, dichiarandosi indisponibile a svalutare ed importare, in tal modo, inflazione. Con il default americano (perché di quello si trattava, in soldoni) il mondo s’incamminava verso un regime di cambi fluttuanti o, per essere più precisi, di “fluttuazione sporca”; antiche certezze venivano meno, e soprattutto una dura lezione si affermava: non esistono gabbie artificiali che riescano a contenere squilibri nei fondamentali, quando tali squilibri superano il punto di non ritorno, divenendo danni auto-inflitti. Qualcosa su cui meditare oggi. Oltre a mandare in soffitta il mito dell’Arcadia chiamato Gold Standard.
Ascoltate le immortali parole di Tricky Dicky: