Altra settimana di recupero di pressoché tutti i mercati, malgrado dati economici contrastati. Nuovi massimi dell’anno per l’azionario e le materie prime, negli Stati Uniti nuovo massimo azionario di ciclo.
L’obiezione all’attuale rally di mercato è che si tratterebbe di un fenomeno indotto, di natura non fondamentale, risultato di quello stesso denaro facile che ha causato la prima crisi, e quindi con rischi non trascurabili di condurre ad esiti traumatici se e quando il rubinetto monetario verrà chiuso. E’ certamente vero che la crescita globale (oggi stimata al 2 per cento circa) è del tutto insufficiente a determinare il riassorbimento della disoccupazione e dell’elevato livello di debito. Gli utili aziendali hanno fatto autentiche meraviglie, data la bassa crescita, grazie alla bassa pressione proveniente dai salari. Inoltre, negli Stati Uniti i margini di profitto hanno raggiunto nuovi massimi, ed è quindi difficile pensare ad una loro ulteriore espansione. Quindi i fondamentali che tradizionalmente sostengono prezzi in crescita per gli attivi rischiosi non sembrano essere presenti. I dati di attività economica statunitensi stanno effettivamente cominciando ad uscire più deboli, mentre quelli asiatici, in contrasto, registrano sorprese positive (pur se con la rilevante eccezione della crescita indiana).
Le previsioni favorevoli per gli attivi rischiosi non derivano, quindi, da speranze di forte crescita economica, quanto invece da una reflazione e dal progressivo venir meno della percezione di rischi di scenario ribassista. Entrambi gli elementi sono indotti e supportati dalla aggressiva azione delle banche centrali. Possiamo quindi affermare che i mercati in questo momento si basano non tanto sui fondamentali macroeconomici quanto su quelli tipicamente finanziari, misurati in termini di confronto tra premi al rischio e rischi effettivamente conseguiti, e di offerta relativa tra attivi considerati sicuri e quelli rischiosi. I problemi fiscali dei paesi sviluppati sono lungi dall’essere risolti ma l’aggressiva azione delle banche centrali (ultima in ordine cronologico la Bce con la seconda asta triennale di liquidità, del 29 febbraio) stanno consentendo ai governi di prendere tempo per iniziare a risolvere questi problemi.
La domanda che più propriamente ci si pone è invece riferita a quanto potrà durare questo rialzo indotto dalla liquidità, e quanto di esso verrà effettivamente “restituito” quando le banche centrali inizieranno l’eventuale uscita da misure straordinarie che sono divenute ormai la norma ma che norma non possono essere.
Al momento, tuttavia, la ricerca di rendimento sta divenendo spasmodica, poiché le banche centrali hanno distrutto i rendimenti nella parte a breve scadenza della curva, e molti investitori hanno comunque dei vincoli istituzionali a spostarsi sull’azionario. Lo spostamento sulla parte a lunga scadenza della curva tende così a divenire un passaggio quasi obbligato, anche se resta importante monitorare le attese d’inflazione e l’indipendenza delle banche centrali. Per queste considerazioni, l’attenzione deve restare focalizzata anche su attività reali, quali materie prime, oro, azionario, infrastrutture.
Sul mercato del reddito fisso, settimana pressoché invariata. Negli Stati Uniti, Ben Bernanke ha in parte deluso alcuni, non segnalando ulteriori allentamenti monetari durante le audizioni congressuali. In Eurozona, la Bce ha assegnato 530 miliardi a 800 istituzioni creditizie nella seconda operazione triennale, portando quindi il totale a oltre 1.000 miliardi. Un mercato inondato di liquidità dovrebbe significare minori rendimenti anche sul resto della curva. Esattamente come nella prima asta LTRO, le banche italiane e spagnole hanno rappresentato circa la metà del nuovo indebitamento netto, rafforzando il proprio potenziale di sostegno al mercato dei titoli di stato domestici, dopo acquisti per quasi 70 miliardi di euro nel bimestre dicembre-gennaio. Da ciò si origina la maggiore attrattività del debito sovrano della periferia, anche se l’inevitabile correzione al rialzo del rapporto deficit-Pil spagnolo (e la successiva decisione del governo spagnolo di non rispettare il target previsto per quest’anno, ma solo quello a fine 2013) conferma che i problemi strutturali dell’area sono lungi dall’essere risolti.
Sul mercato azionario, l’indice S&P 500 in settimana ha toccato un nuovo massimo post-crisi. Il supporto macro è in qualche modo venuto meno, come dimostrano gli indici di sorpresa dell’attività economica. Ma sul piano globale il quadro fondamentale è migliore. La natura del movimento rialzista, derivante da reflazione più che da crescita economica, potrebbe favorire le società ad alto (e sostenibile) dividendo e contenuti rapporti di indebitamento.
Sul mercato dei crediti, ulteriore restringimento degli spread. La drastica riduzione della percezione di rischio sistemico indotta dal finanziamento triennale della Bce ed il prevalente convincimento che la stessa Bce e la Fed abbiano poca volontà o spazio di manovra per alzare i tassi nel breve termine stanno guidando la domanda verso le obbligazioni societarie, in particolare High Yield europeo, supportato anche da previsioni di bassi tassi di default per la regione.
Sul mercato dei cambi, il dollaro continua a non mostrare una particolare tendenza, almeno a livello aggregato, cioè di dollar index, malgrado il positivo andamento dei mercati azionari e la maggior propensione globale al rischio, da cui ci si aspetterebbe un indebolimento del biglietto verde. A livello bilaterale, per contro, vi sono rilevanti divergenze tra regioni, con il cambio yen-dollaro in vistoso indebolimento.
Le materie prime sono in lieve ribasso questa settimana, con oro e petrolio che cedono parte dei recenti guadagni. Da fine gennaio il greggio ha messo a segno un rialzo del 13 per cento ma i prodotti petroliferi sono cresciuti meno, di circa il 6 per cento medio. Ciò significa che alcuni margini di raffinazione sono stati significativamente compressi, spingendo i raffinatori in più precarie condizioni di accesso al credito a riduzioni temporanee della produzione e quindi a ridurre la domanda di greggio. Anche l’arrivo della stagione primaverile nell’emisfero settentrionale dovrebbe contribuire al temporaneo raffreddamento della dinamica dei prezzi, messi in tensione recentemente anche dalle ondate di gelo in Europa ed Asia.
Nella giornata di mercoledì l’oro ha ceduto il 5 per cento dopo che Ben Bernanke, nella sua testimonianza davanti al Congresso, non ha dato indicazioni dell’arrivo di un ulteriore easing quantitativo. Ma l’espansione del bilancio delle altre maggiori banche centrali (con il suo teorico potenziale inflazionistico), ed il fatto che gli istituti di emissione dei paesi emergenti abbiano relativamente meno riserve auree rispetto a quelle dei paesi sviluppati (ed il loro verosimile desiderio di accrescere tali possessi) restano fattori di sostegno a domanda e quotazioni del metallo giallo.