Prosegue il dibattito caratteristicamente italiano sulla riforma dell’articolo 18. Non staremo qui ad entrare in tecnicalità, ci limitiamo a segnalare il documento governativo in modo che i posteri, passando da questi pixel, possano rapidamente recuperare un riferimento. Né analizzeremo la problematica dell’estensione al pubblico impiego della disciplina della legge 300/70, visto che ormai sappiamo per certo che il decreto legislativo 165/2001 disciplina i licenziamenti, individuali e collettivi, nel settore pubblico. Al governo l’onere di predisporre specifica deroga, a rischio di produrre uno tsunami di impopolarità che avrebbe tra le prime incolpevoli vittime le moltitudini di pubblici dipendenti che svolgono il proprio lavoro con coscienza e dedizione, spesso agli ordini di “dirigenti” inette marionette agli ordini della politica.
No, il punto è un altro. Questa riforma è funzionale a due ordini di obiettivi: ridurre quelli che gli anglosassoni chiamano firing costs (i costi che le aziende sostengono per ottenere la risoluzione del rapporto di lavoro), e “calmierare” i costi a carico della fiscalità generale dell’uso di ammortizzatori sociali di emergenza, come la cassa integrazione in deroga, imposti dalla crisi fiscale. In pratica, piegare la curva di crescita di queste voci di spesa pubblica, destinata altrimenti ad assumere un andamento esplosivo a causa della profondità e della durata della crisi, che amplifica l’impatto negativo sul gettito d’imposta.
Sono ricette standard, quelle stesse proposte a tutti i paesi in crisi. Ciò non toglie che occorre essere consapevoli di una cosa: queste misure, in un contesto di assenza di crescita e di stretta fiscale permanente, serviranno a ridurre l’inerzia e l’attrito alla pressione “spontanea” alla riduzione degli organici aziendali, riducendone i costi. In astratto, e simmetricamente, dovrebbero anche servire ad aumentare la propensione alle assunzioni in caso di ripresa, ma il condizionale è d’obbligo, visto il numero di variabili coinvolte nella decisione di aumentare gli addetti aziendali. Basterebbe, ad esempio, che il sistema-paese godesse di un rimbalzo della produttività per allontanare ulteriormente nel tempo il riassorbimento della disoccupazione. Certo, sarebbe certamente dovuta essere priorità tra le priorità del governo quella di recuperare risorse per tagliare il cuneo fiscale, ma evidentemente non c’erano margini.
Nel frattempo, all’orizzonte si staglia distintamente il maggiore effetto che il combinato disposto delle “riforme gemelle”, previdenziale e del lavoro, è destinato a produrre: un aumento di uscite dal lavoro di soggetti anziani, i neo-esodati della transizione italiana. E’ fatale che questo avvenga, a meno di introdurre nuovi elementi di “ammortizzazione”, come ad esempio la “rimodulazione” (cioè la riduzione) della retribuzione all’avanzare dell’età del lavoratore, per riflettere la sua presunta minore produttività e capacità di adeguamento alle riorganizzazioni aziendali ed ai nuovi meccanismi operativi. Un contrappasso epocale rispetto all’era degli incrementi retributivi automatici, per anzianità.
Ripetiamolo alla nausea, soprattutto quella di chi scrive queste logore elucubrazioni: queste riforme “flessibilizzano” il sistema ma non generano crescita, per sé. Chi vi dice il contrario, mente. Oppure ripete a pappagallo cose sentite altrove. Siamo in uno squilibrio strutturale molto profondo: se fossimo al solito bar dello sport (o all’osteria degli economisti), potremmo dilettarci tra la lettura “keynesiana”, che vede il problema nel buco di domanda aggregata, o quella “supply side“, secondo la quale basta riformare dal lato dell’offerta e tutto si risolve. Ma allo stato attuale poco importa chi risulti il vincitore di questa disputa ideologica. Di certo tra gli sconfitti ci sono i lavoratori. Ineluttabilmente.
Update – Per Tito Boeri e Pietro Garibaldi, la riforma rischia paradossalmente di aumentare l’incentivo a ricorrere a licenziamenti collettivi anziché individuali, mentre l’aumento del costo del lavoro previsto per le figure precarie verrà a ricadere sotto di forma di minore netto in busta, nelle tasche dei lavoratori. Il sospetto di Boeri e Garibaldi è che la rigidità (leggasi onerosità) in entrata venga persino aumentata dall’introduzione della figura contrattuale dominante dell’apprendista, il che porterebbe ad una riduzione della domanda di lavoro. O al proliferare di nuove forme contrattuali precarie.