Argentina, un disastro che attende di accadere

Nei giorni scorsi, il governo argentino ha modificato la missione istituzionale della banca centrale nazionale, che ora è quella di “promuovere, nei limiti delle sue possibilità entro la cornice di politiche stabilite dal governo nazionale, la stabilità monetaria, finanziaria, occupazione e crescita economica con equità sociale. Tanta roba. Più semplicemente, la banca centrale ha perso anche l’ultima parvenza di indipendenza legale ed è ufficialmente diventata il salvadanaio del governo della Presidenta Cristina Fernandez.

In base alla nuova funzione, ora l’istituto di emissione potrà arrivare a trasferire al Tesoro (udite, o meglio leggete) liquidità fino al 20 per cento delle entrate pubbliche e fino al 12 per cento dell’offerta di moneta, usare le proprie riserve (ad oggi pari a 47 miliardi di dollari) per pagare debiti governativi, oltre a giocare un ruolo più invasivo nella regolazione delle banche e nella trasmissione del credito verso settori industriali prescelti dal governo.

Dopo la cacciata del governatore Martin Redrado, nel 2010, la Fernandez ha saccheggiato oltre 16 miliardi di dollari di riserve della banca centrale per pagare il debito, e ne ha opzionati altri 5,7 per il 2012. Sotto il vecchio ordinamento della banca centrale, che risaliva ai tempi del peg del peso al dollaro (quello che portò il paese al crack nel 2001), era previsto che il governo potesse ricevere solo la quota di riserve in eccedenza rispetto alla copertura alla pari dei pesos in circolazione (un dollaro, un peso). Avendo esaurito tale eccedenza, il governo ha rotto gli indugi e si è impossessato della banca centrale.

La Fernandez persegue la crescita con ogni mezzo, come il suo defunto marito, Nestor Kirchner, ma gli squilibri prodotti in questo tentativo stanno lentamente serrandosi attorno al collo del paese. Gli enormi sussidi utilizzati per ridurre le tariffe dei servizi di pubblica utilità hanno avuto un ruolo decisivo nell’affondare i conti pubblici. La progressiva perdita di competitività del paese sta erodendo anche l’avanzo delle partite correnti. Per evitare di perdere preziosa valuta estera, il governo ha quindi intrapreso un feroce controllo dei movimenti di capitale e delle importazioni.

Una delle ultime fantasiose misure protezionistiche prevede che chi acquista libri da siti internet esteri (uno a caso, immaginiamo), debba poi provvedere personalmente allo sdoganamento aeroportuale, pagando diritti che possono arrivare fino a 80 dollari. E già un paese che si comporta in questo modo meriterebbe il più truce del default. Il governo potrebbe usare le riserve della banca centrale per ripagare quei 9,3 miliardi di dollari di debito dovuto al Club di Parigi dei paesi creditori, e cessare di essere un paria sui mercati internazionali. Ma le priorità della presidenta sono altre.

L’effetto immediato del cambiamento della legge che regola la banca centrale è stato un ulteriore aumento dei timori che l’inflazione possa sfuggire di mano (è già sfuggita, in realtà, ora si tratterebbe di spostarsi verso condizioni di quasi iperinflazione), e la pressione ribassista sul peso si è accentuata. Nulla che non si potesse immaginare, ma ripetere gli errori del passato (oltre ad una classe politica di cialtroni e ad un elettorato ad essa omogeneo) è ciò che davvero affratella, mutatis mutandis, Italia ed Argentina. La nuova presidente della banca centrale (a dimostrazione del fatto che combinare disastri non è una prerogativa di genere) ha tuttavia solennemente promesso che l’istituto di emissione sarà “molto rigoroso” e non stamperà più moneta di quanto necessario. Bontà sua. Per ora, la resa dei conti del collasso del peso è solo rinviata, grazie all’ancora basso stock di debito ed ai controlli sui capitali.

Altra storia di successo del fallimento argentino è la vicenda della compagnia petrolifera YPF, oggi controllata dagli spagnoli di Repsol, dopo la privatizzazione del 1993, per opera del governo di Carlos Menem, che oggi viene utilizzata dal governo per titillare i soliti istinti nazionalistici degli argentini. Recentemente, per le vie di Buenos Aires sono comparsi manifesti, ispirati dal governo, con il logo della compagnia petrolifera ed una cartina delle Falkland-Malvinas, e la scritta “Sono Argentina”.

Il governo accusa YPF per la caduta nella produzione petrolifera, oggi inferiore del 32 per cento al picco del 1998, e del gas (meno 10 per cento dal 2004), mentre la compagnia rimbalza le accuse e potrebbe anche avere un pizzico di ragione, visto che riceve dal governo solo 42 dollari per barile esportato, e 70 per quello destinato ad utilizzo domestico, mentre i mercati globali stanno sui 120 dollari al barile. Difficile lamentarsi che, con questa remunerazione, manchino gli investimenti. Nel frattempo, sei province minori hanno tolto la concessione a YPF. Vedremo se il governo compirà l’atto fatale di una piena nazionalizzazione.

Nel frattempo, pare che l’Argentina galleggi su un oceano di idrocarburi di scisto, per sviluppare il quale YPF stima servirebbero però investimenti per 25 miliardi di dollari l’anno per un decennio. Troppo anche per la banca centrale argentina. Ma il chavismo non paga, e presto gli argentini lo scopriranno direttamente sulla loro pelle.

Update del 16 aprile 2012 – L’atto fatale è arrivato. Il chavismo è lo stato terminale del populismo. L’Argentina, oggi come dieci anni addietro, si conferma stato fallito.

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