Leggende bancarie

Ieri, il vicedirettore generale (oltre che capoeconomista) della Banca d’Italia, Salvatore Rossi, ha pronunciato parole che avrebbero meritato maggiore eco sulla stampa, perché potrebbero contribuire al decisivo debunking della fola secondo la quale “le banche si indebitano all’1 per cento e prestano allo Stato al 4-5 per cento e oltre, quindi scoppiano di profitti”. Non è così, fatevelo entrare in testa.

Con le parole di Rossi:

«I finanziamenti straordinari dell’Eurosistema andavano a compensare il venir meno di una forte componente della raccolta bancaria: era quindi illusorio che avrebbero fatto aumentare il credito alle imprese; hanno invece contribuito a frenarne la riduzione»

Proprio così: le banche hanno subito una forte frenata nella crescita, ed in alcuni casi una contrazione della propria base di depositi. E poiché i depositi sono il carburante per gli impieghi, se non si fosse posto un argine a questa inquietante tendenza, l’esito prevedibile sarebbe stata la liquidazione di attivi, cioè il rientro da prestiti erogati. Una condizione di credit crunch ancora più severa di quella che stiamo attualmente sperimentando. Come sa chi ha la pazienza di leggere questo sito su base più o meno regolare, inoltre, i finanziamenti triennali della Bce alle banche italiane sono stati una frazione relativamente contenuta della quota di impieghi (tra il 3 ed 10 per cento). Il fatto che lo stock di titoli di stato italiani sia aumentato, nei mesi successivi alle aste LTRO, non confuta la tesi di Rossi (e nostra): solo una quota relativamente contenuta di quei prestiti è finita in titoli di stato.

Non è infatti un caso che, contrariamente alle attese (anche nostre), ben poche banche abbiano proceduto al riacquisto sul mercato secondario di proprie obbligazioni subordinate, per realizzare plusvalenze con cui irrobustire il proprio capitale. La priorità era quella di contrastare il calo di depositi.

A margine, una osservazione sull’audizione di ieri in Commissione Industria del Senato del presidente dell’Abi, Giuseppe Mussari, che ha detto:

«L’industria bancaria italiana non guadagna il giusto e rischia di cambiare natura ed essere fagocitata dall’esterno, con grave nocumento per l’economia nazionale»

A parte quel termine, giusto, che è piuttosto naif e sintetizza la natura ultracorporativa della società italiana, sarebbe opportuno ricordare a Mussari che, se le banche italiane sono in grave difficoltà, ciò deriva anche dai marchiani errori strategici di una casta di banchieri che hanno sistematicamente distrutto valore nel settore, preoccupandosi soprattutto di mantenere buone relazioni con la politica, impersonata dalle fondazioni, ed estrarre parassitariamente imponenti benefici privati per sé. Sono banalità assolute, lo sappiamo, motivo per il quale non andremo oltre. Ci basterebbe che la nostra cosiddetta “classe dirigente” smettesse di recriminare su presunte cause esterne dell’inabissamento del paese quando in realtà, austerità a parte, è tutto rigorosamente endogeno. Ma anche questo è chiedere troppo. E quanto al pericolo del “forestiero fagocitatore”, abbiamo pure perso la voglia di sorridere di simili sciocchezze.

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