Nuovo, imperdibile editoriale di Luca Ricolfi, il number cruncher ricercato dall’Interpol per torture e sevizie a danno dei numeri. Questa volta il Nostro ci spiega che l’Italia ha ripreso a sottoperformare in Europa perché non facciamo abbastanza per la crescita, che è soprattutto un problema di costi. Se quest’ultima considerazione è genericamente condivisibile (e per essa non servirebbe un editoriale su un prestigioso quotidiano, essendo ormai compiuta anche dalla casalinga di Voghera), quello che lascia perplessi è l’opera di data mining per inferire che “i mercati sembrano non fidarsi più di noi”.
Quello che conduce Ricolfi a questa conclusione è una sorta di “indicatore proprietario”, chiamato lo “spread dello spread”, che farebbe invidia a Renato Brunetta:
«Il segnale più negativo non viene dallo spread, che è tornato a salire ma in realtà risente sempre, e pesantemente, della irresolutezza delle autorità europee, bensì dallo “spread dello spread”, cioè dalla differenza fra quanto i mercati pretendono dall’Italia e quanto pretendono dai Paesi a noi più comparabili come la Spagna, il Belgio, la Francia, paesi cioè che non sono né formiche come la Germania né cicale come la Grecia e il Portogallo»
Sarà che anche chi scrive tende a lavorare con i numeri, ma non sarebbe stato male specificare in che modo questo indicatore derivato è costruito. E’ forse una media degli spread contro Germania dei paesi indicati (Spagna, Belgio, Francia)? Oppure (meno probabile) è una media sui credit default swap? E come è calcolata, questa media? Semplice o ponderata per il Pil? Non si sa.
Il punto è che, come noto, i numeri sottoposti a tortura confessano qualsiasi cosa. Tralasciamo il fatto che lo spread tra Italia e Spagna è passato da 202 a nostro sfavore il 30 dicembre scorso a 47 a svantaggio della Spagna nella giornata di ieri, il che sembra indicare una “lieve” sovraperformance del nostro tassatissimo paese rispetto a Madrid, per gli amanti del tifo calcistico. Anche se è sacrosanto puntare il dito e l’enfasi sull’eccesso di pressione fiscale che sta uccidendo questo paese, sarebbe più opportuno ricordare che la Spagna ha finora varato correzioni formalmente centrate in via prevalente su tagli di spesa (alcuni, come quelli in conto capitale, assolutamente controproducenti nel lungo termine) e non pare che i mercati l’abbiano propriamente premiata. Ma sul Belgio e sulla Francia, che si può dire?
Intanto, si potrebbe cominciare col dire che, nella costruzione di questo bizzarro “spread dello spread”, utilizzare le differenze assolute tra valori nazionali ha assai poco senso. Meglio sarebbe usare quelle relative, in termini percentuali. Se si facesse una cosa del genere si scoprirebbe che lo spread italiano contro Germania, dall’ultimo minimo relativo del 19 marzo al 16 aprile, si è allargato dal livello di 278 a quello di 387, che fa un più 39 per cento. Quello tra Belgio e Germania, nello stesso arco temporale, è passato da 121 a 171, che fa un +41 per cento. Quello francese è passato da 94 a 130, che significa +38 per cento.
Ideona per Ricolfi: provare a controllare le correlazioni tra coppie di paesi, per arrivare a scoprire un concetto vecchio di decenni e posto in relazione alla rischiosità specifica di un asset, chiamato beta, misurato contro il nuovo risk-free chiamato Germania. Possibile che chi si occupa professionalmente di analisi dei dati sia prono a simili facilonerie, riuscendo al contempo ad ammaliare le italiche folle, che notoriamente soffrono di quella malattia che in inglese si definisce con il pregnante termine innumeracy (contrapposto ad illiteracy)?
Ripetiamo il concetto, articolandolo:
- L’Europa sta autoaffondandosi per effetto di una austerità folle, che non può essere compensata praticamente da nulla, se non da una politica monetaria altrettanto follemente espansiva, che al momento manca;
- E’ impossibile, dato questo contesto, pensare che singoli paesi sottoposti a questa autoflagellazione fiscale possano mettersi a crescere autonomamente, qualsiasi cosa facciano;
- I mercati stanno punendo sia paesi che aumentano la pressione fiscale (noi) sia quelli che agiscono (o affermano di agire) dal lato di prevalenti tagli di spesa;
- Malgrado ciò, tagli di spesa sono certamente preferibili ad aumenti di pressione fiscale, ma nel breve-medio termine, dato il contesto di devastazione fiscale di cui sopra, non si rilevano esiti realmente differenti tra i due approcci;
Tutto ciò premesso, si può e si deve spingere per una razionalizzazione e riduzione dell’incidenza della spesa pubblica sul Pil, sapendo tuttavia che nel contesto attuale cambierà comunque assai poco. Il punto fermo è che sarebbe auspicabile evitare di inventarsi correlazioni laddove tali correlazioni non esistono. Soprattutto quando si è recidivi.