Mercati rischiosi in accentuato arretramento in settimana, rally di dollaro e governativi “sicuri”, a causa del riemergere del “rischio-Lehman” nel cuore dell’Europa, attendendo le nuove elezioni greche, il 17 giugno. Che mai come oggi appare molto lontano.
I dati economici restano in larga parte neutri ed in linea con il consenso. Il Pil dell’Eurozona (invariato) e quello giapponese (più 4,1 per cento) del primo trimestre hanno peraltro battuto il consenso, anche se nel caso dell’Eurozona il dato è un aggregato di realtà sempre più divergenti. Ma l’andamento cedente dei mercati azionari rischia di avere un effetto depressivo sull’attività economica, che ridurrebbe le stime di crescita per la restante parte dell’anno.
Riguardo la crisi dell’Eurozona e la situazione greca, ci si chiede come possa un paese di dimensioni economiche modeste produrre questo rilevante impatto sull’economia globale, oltre che su quella della regione europea. La risposta va cercata nel “moltiplicatore” rappresentato dal canale bancario, che rende sistemico anche un piccolo paese. Le autorità europee hanno sinora significativamente sottostimato l’impatto macro di decisioni prese a livello micro, cioè di singoli paesi. Chiedere a singole nazioni di ridurre il debito senza contare su rilevanti aiuti dall’esterno e ricapitalizzare il proprio sistema bancario ha certamente senso su base individuale, ma si trasforma su base aggregata e collettiva in quello che è conosciuto come “paradosso del risparmio”. Anche l’evidente divisione esistente entro la leadership europea (perché la problematica ha evidenti ricadute nazionali ed elettorali) non aiuta ad evolvere verso la soluzione della crisi. La Banca centrale europea è finora riuscita a produrre leadership e capacità di guida, pur entro i limiti imposti dai suoi trattati istitutivi, ma il problema e la soluzione sono eminentemente fiscali, e non monetari.
Riguardo la linea d’azione, e data la ormai ricorrente similitudine tra Grecia e Lehman, potrebbe essere utile rileggere quanto fatto dopo il collasso del broker statunitense, nel 2008. All’epoca la risposta del governo americano fu il TARP, con le sue iniezioni forzose di capitale nelle banche, per impedire che l’economia si avvitasse in una spirale depressiva. Qualcosa del genere dovrebbe avvenire anche in Eurozona, a sostegno di un sistema creditizio che è ancora più decisivo che negli Stati Uniti per le sorti dell’economia, vista la natura essenzialmente “bancocentrica” dei nostri sistemi produttivi. Più difficile, per motivi fondamentali oltre che politici, la fattibilità di un’azione di deprezzamento dell’euro attuata deliberatamente dalla Bce, perché i fondamentali indicano che l’Eurozona nella sua interezza non ha deficit delle partite correnti, anche se a livello intracomunitario sono proprio gli squilibri di competitività ed interscambio commerciale ad avere posto le basi per la crisi.
Fino al 17 giugno, sul piano operativo vi è poco da fare, anche per non apparire impegnati in una coercizione degli elettori greci. Un nuovo governo che rigettasse unilateralmente gli accordi già sottoscritti finirebbe con lo scontrarsi con lo speculare irrigidimento dei leader europei, che a quel punto potrebbero anche raccogliere il guanto di sfida e spingere la Bce a proteggere il resto della periferia europea con mezzi monetari non convenzionali, andando a “vedere” il gioco di Atene ed abbandonando il paese al suo destino. Questa mossa potrebbe peraltro portare a ricapitalizzazioni pubbliche su vasta scala del sistema bancario dell’Eurozona. Un’uscita della Grecia non è comunque nell’interesse di nessuna delle parti, anche perché assai difficilmente potrebbe avvenire in maniera consensuale, cioè “assistita” e “controllata”.
Secondo alcune stime, l’uscita della Grecia ridurrebbe il Pil dell’Eurozona di un ulteriore 2 per cento. E’ peraltro probabile che il mercato non stia ancora scontando l’esito dell’eventuale uscita, in termini di riduzione dell’esposizione al rischio. E’ quindi realistico immaginare che, in caso di uscita caotica della Grecia, si verificherebbero rilevanti ribassi per azioni ed obbligazioni societarie. L’euro subirebbe inoltre un significativo ribasso.
Sul mercato del reddito fisso, altra settimana di cali di rendimento per i i mercati considerati “sicuri” o comunque meno rischiosi nel confronto con l’Eurozona. Bund e Gilt britannici toccano nuovi minimi storici di rendimento, nel secondo caso supportati anche da previsioni benigne per l’inflazione da parte della Bank of England. I mercati seguiranno con molta attenzione i sondaggi elettorali.
Sul mercato azionario, a livello di posizionamento, al momento la mossa più scontatamente difensiva è quella di privilegiare gli Stati Uniti sull’Europa, giustificata dall’aggravamento della crisi di debito sovrano, che minaccia di ripetere quanto visto lo scorso anno, quando il coinvolgimento di Spagna e Italia nella crisi ebbe effetti depressivi sui livelli di attività economica del secondo semestre. In Cina, ci si attende che le autorità annuncino durante l’estate nuove misure di stimolo prima del cambio di leadership a Pechino, previsto in autunno. Sui mercati dell’Eurozona, cresce la probabilità che le autorità nazionali impongano il divieto di vendite allo scoperto in Spagna e Italia, visti i forti ribassi delle azioni bancarie. Ciò finirebbe con lo spostare la pressione della speculazione ribassista verso l’indice azionario tedesco, che diverrebbe in quel caso lo strumento di copertura di quanti volessero ridurre la propria esposizione sull’Eurozona o assumere posizioni strettamente ribassiste sull’area.
Il mercato dei prodotti a spread continua a soffrire, dopo la rimarchevole resistenza degli ultimi mesi.
Sul mercato dei cambi, l’eventualità di una affermazione della sinistra radicale greca di Syriza, che ha un’agenda estrema rispetto allo scenario prevalente (quello di una rinegoziazione delle modalità di salvataggio, che sarebbe comunque avvenuta), sta portando gli analisti a rivedere al ribasso i target per il cambio euro-dollaro, per riflettere l’accresciuta probabilità di un esito disordinato e traumatico della crisi, che scatenerebbe fughe di capitali dall’intera regione e non solo dalla periferia. Se, tuttavia, il governo che uscirà dalle urne il 17 giugno dovesse approcciare la Troika in modo non aggressivo, richiedendo una riduzione dell’onere del debito (che a questo punto ricadrebbe sui contribuenti europei), il cambio dell’euro potrebbe stabilizzarsi e iniziare una risalita, per considerazioni fondamentali (visto che la regione ha un avanzo delle partite correnti) oltre che tecniche, perché vi sono forti posizioni corte sull’euro contro dollaro. Per ottenere questo esito, tuttavia, Syriza dovrebbe restare fuori anche da un eventuale governo di coalizione, oltre a non diventare il primo partito del paese. E’ opportuno ricordare che i tutti i sondaggi indicano che una ampia maggioranza di cittadini greci (i tre quarti circa) sono favorevoli a restare nell’euro.
La materie prime hanno proseguito in settimana la loro fase di debolezza, con un calo del 2 per cento circa, espresso in dollari. Le flessioni maggiori per petrolio e metalli base, che hanno più che compensato i forti guadagni delle materie prime agricole. La crisi dell’Eurozona minaccia un evento sistemico globale che pesa sui prezzi delle materie prime. Basti pensare che l’Europa è il maggiore mercato di sbocco per la Cina, che a sua volta è il paese più importante per la domanda globale di materie prime.
Nella giornata di giovedì 17 maggio è stato invertito il flusso della pipeline tra il punto di raccolta petrolifero di Cushing, in Oklahoma, ed il Golfo del Messico. Ciò permetterà di ridurre lo spread tra i prezzi del greggio Brent ed il WTI, anche se resta il rischio che la produzione del Midwest statunitense e quella canadese, che fluiscono verso Cushing, aumentino più rapidamente delle attese, compensando i benefici del deflusso verso il Golfo del Messico.