In questi giorni si è sviluppata una polemica piuttosto velenosa tra fautori della “svalutazione interna” e sostenitori dell’aggiustamento “tradizionale” degli squilibri, cioè attraverso svalutazione del cambio. I due paesi “campioni” dei due schemi sono rispettivamente Lettonia e Islanda. La prima ha tenuto duro sul cambio della propria valuta contro euro, è passata attraverso un crollo del Pil di proporzioni bibliche ed ora sta ripartendo, mandando in visibilio gli austerici. L’Islanda, invece, entusiasma quanti sostengono, piuttosto confusamente, le virtù della “disobbedienza fiscale” e dell’eterodossia macroeconomica, quella (ad esempio) dei controlli sui cambi. In entrambi i casi, appare assai difficile trarre inferenze valide per tutti i paesi coinvolti.
Della Lettonia abbiamo detto: il paese si è inabissato in termini di Pil, ed è riemerso (ma senza aver ancora colmato il gap rispetto a prima della crisi) ma solo dopo aver perso per emigrazione circa un decimo della propria popolazione attiva e dopo uno shock inflazionistico che ha abbassato i tassi reali d’interesse riavviando la domanda interna, anche grazie al fatto che le banche sono rimaste funzionanti e funzionali, continuando ad erogare credito. Ma la tanto decantata austerità non si è dimostrata risolutiva.
Riguardo l’Islanda, che è invece il modello di quanti chiedono una svalutazione del cambio e non la deflazione come strumento per recuperare competitività, è certamente vero che il paese ha recuperato molto dalla svalutazione della corona, così come da uno shock positivo dal lato dell’offerta che ha beneficiato l’export (pesca, energia), oltre che da controlli feroci sui movimenti dei capitali (altra mossa eterodossa), ma siamo certi che questo “modello” di ripresa possa essere generalizzabile?
Riguardo la “via baltica”, in un commento su uno dei blog dell’Economist, Ryan Avent risolve la disputa individuando alcune condizioni che potrebbero rendere vincente la “svalutazione interna”. Esse sono:
- Una economia “disposta a soffrire”. E qui entra in gioco il “carattere nazionale”, quindi è assai difficile modellizzare e generalizzare;
- Una economia piccola ed aperta. Vero e piuttosto self-evident;
- Una economia con mercati del lavoro flessibili, soprattutto nella componente retributiva. Vero anche qui, ma bisognerebbe aggiungere che l’emigrazione ha aiutato in modo assai rilevante la Lettonia ad uscire dai problemi;
- Un’economia con uno stock di debito relativamente piccolo. Perché, come noto (anche se non a tutti), durante il nadir della recessione da aggiustamento il rapporto debito-Pil s’impenna.
- Last but not least, i principali partner commerciali dell’economia in questione devono avere una congiuntura relativamente in salute.
Come indica lo stesso Avent, i baltici hanno soddisfatto quasi tutte queste condizioni, l’Irlanda solo una parte, ma i paesi della periferia dell’Eurozona non riuscirebbero a soddisfarne alcuna. Quindi il modello non è esportabile né adottabile come success story. Ammesso e non concesso che lo sia, anche per i diretti interessati.
Riguardo l’Islanda, invece, sono utili le osservazioni di Kevin Drum in risposta a Paul Krugman: paese non finanziariamente sistemico, popolazione risibile. E quest’ultimo punto dovrebbe essere ben chiaro a Krugman, che spesso batte il tasto della non generalizzabilità a modello di paesi di dimensioni piccole e piccolissime. Evidentemente, ognuno ha i propri bias, che fanno perdere lucidità analitica.