La Grecia avrà i suoi soldi, come abbiamo visto. Il rischio è che sommare debito a debito, se l’economia del paese non riparte (e perché dovrebbe?) finirà col portare a nuovi guai. E sia chiaro che nessuno considera risolutivo l’accordo dell’altroieri, anzi. Però non si può fare a meno di trarre alcune inferenze da quello che resta un dato di fatto: la Grecia non viene espulsa dall’euro (né opera per uscirne, chissà come mai). Ogni volta che sembra avvicinarsi a questo esito, accade qualcosa, in sede comunitaria, a trattenerla per i capelli. Le previsioni di praticamente tutte le case d’investimento su tempi e probabilità di uscita di Atene, la più eclatante delle quali era quella dello strategist di Citigroup, Willem Buiter, sono ormai state clamorosamente mancate. Chiediamoci perché.
Forse perché è ormai chiaro anche ai più tonti che, se ne esce uno, potenzialmente possono uscire tutti e si riprodurrebbe al massimo grado e potenza quel mortale “rischio di convertibilità” che Mario Draghi è riuscito titanicamente a porre sotto controllo da questa estate? Diremmo che è così.
Potremmo anche dire, citando peraltro lo stesso Wolfgang Schaeuble, che l’euro serve alla competitività tedesca, quindi ai tedeschi serve che resti in piedi. Il che significa che, pur non (ancora) formalizzato, un sistema di trasferimenti intracomunitari è in atto, anche se i tedeschi stanno facendo l’impossibile per spalmare furbescamente tali trasferimenti anche sulle spalle di paesi non particolarmente solidi come Italia e Spagna.
Possiamo dire che per ora non si è risolto nulla, e che stiamo giocando un enorme schema di Ponzi, ma dovremmo anche ricordare che, di solito, ciò che conta dei debiti è la loro attitudine ad essere rinnovati, non rimborsati. L’Italia e la Spagna sono andate nei guai proprio perché, ad un certo punto, il mood politico dell’Eurozona, dettato dal suo egemone tedesco, trasmetteva il messaggio della possibilità di una dissoluzione, seminando il panico tra chi aveva comprato debito sovrano denominato in euro e temeva di ritrovarselo svalutato del 50, 60 per cento ed oltre.
E’ stato a quel punto che, in Eurozona, si è affermato il fenomeno della frantumazione del mercato finanziario, e la conseguenza è stata che le banche commerciali hanno aumentato, bongré malgré, la quota di debito sovrano nazionale nel proprio portafoglio. Molti osservatori hanno letto questo fenomeno, alternativamente, come una benedizione (una specie di ingenuo “padroni in casa nostra e del nostro destino”, oltre che del nostro debito pubblico) oppure, come ad esempio fa Beppe Grillo (ma non solo lui) come un astuto piano congegnato da tedeschi e francesi per permettere alle loro banche di rivenderci i Btp da esse detenuti in portafoglio, in una manovra che qualcuno assimila al “rientro” che le banche chiedono ai propri clienti affidati. Con l’occasione, il premier pro-tempore verrebbe accusato di collaborazionismo e di perseguire forme di “bancarotta preferenziale” a vantaggio dei sopracitati creditori esteri rispetto a quelli domestici.
Oggi, lo scenario sta mutando: anche se la nostra “decrescita infelice” prosegue e proseguirà ancora a lungo, gli investitori extra-euro si rendono conto che lo scenario è più stabile, che la volatilità è quindi in calo e che le banche (anche se non tutte, ovviamente) stanno lentamente ricostruendo margini e riducendo il leverage. Per questo si torna a prestare a soggetti pubblici e privati dell’Eurozona, pur se con le cautele del caso, mentre si comincia a realizzare che i falchi tedeschi sono meno stupidi di quanto si pensi. O meglio, che i falchi stupidi ed ideologici vengono indotti a dimettersi o lasciati sui tetti ad ululare alla luna piena, mentre i falchi svegli menano le danze in Europa, e riescono pure ad eccellere nella assai mediterranea arte del chiagni e fotti.
Per il combinato disposto di queste situazioni, la percentuale di titoli di debito sovrano detenuti da non residenti sta lentamente risalendo, e ciò inficia le letture “bancarottiere” della crisi. Questo è un dato di cui dobbiamo e dovremo tenere conto, anche e soprattutto a livello politico, ammesso e non concesso che i nostri politici ci arrivino. Naturalmente, potremmo anche ipotizzare che questo stato di stenti che non portano a morte il paziente sia funzionale a precise strategie di conquista tedesca del nostro patrimonio produttivo ed imprenditoriale, oppure alla eliminazione di diretti concorrenti. Come che sia, conviene non tirare troppo la corda perché alla Germania servono comunque mercati di sbocco, e perché il loro export sta già pesantemente soffrendo qui in Europa, come osserva (non che ci volesse un Ph.D) la stessa Deutsche Bank in una recentissima nota di ricerca.
Quindi, letture cospirazionistiche a parte, e premesso che il nostro impoverimento prosegue, oggi c’è motivo per ritenere che l’Eurozona possa durare. E con questo dato serve fare i conti, senza rifugiarsi in soluzioni miracolistiche e di ritorno ai bei tempi andati. Il calabrone europeo continua a volare, e tutti si chiedono come diavolo faccia.