Ieri la Federal Reserve, al termine del proprio meeting di politica monetaria, ha comunicato l’eventualità di una progressiva fuoriuscita dalle operazioni di easing quantitativo, cioè dagli acquisti di Treasury ed obbligazioni ipotecarie, oggi pari a 85 miliardi di dollari al mese. I mercati hanno accentuato il movimento, iniziato dopo che Ben Bernanke aveva accennato a questa eventualità, lo scorso 22 maggio, e dopo che si era levato un discreto frastuono tra i governatori della Fed sul quando e come uscire dal QE3, che è cosa diversa dall’iniziare ad aumentare i tassi ufficiali.
A dire il vero, i mercati temevano che il rallentamento potesse iniziare già da questo mese, e Bernanke ha escluso l’eventualità. Ma al contempo ha precisato che si va inesorabilmente al “tapering”, alla riduzione degli acquisti, sino al loro azzeramento, previsto per metà 2014. Il tutto, però, condizionatamente al verificarsi delle previsioni della Fed sullo stato dell’economia statunitense, che per il 2014 ipotizzano una crescita del Pil molto robusta, tra il 3 ed il 3,5 per cento, ed un riassorbimento della disoccupazione sotto il 7 per cento. Anche l’attuale tasso di inflazione, ben al di sotto del target della banca centrale, viene visto come un fenomeno transitorio, tale quindi da non alterare il movimento di lenta “normalizzazione” della politica monetaria.
Bene, lo vedremo. Quello che però oggi conta è che i mercati stanno muovendosi pesantemente, come sempre a “tempo zero”, per scontare lo scenario di metà 2014. E ciò ha causato e sta causando un rialzo generalizzato dei rendimenti, una fuoriuscita di investitori da mercati e valute emergenti ed obbligazioni societarie e più in generale da tutto quello che è “alto rendimento”. Cioè da tutto quello che gli investitori avevano cercato, nei mesi scorsi, nella loro disperata fame di remunerazione. Ma avere, come accade oggi, un aumento dei rendimenti nominali in un contesto di disinflazione, cioè di tasso tendenziale d’inflazione in ripiegamento, significa che i rendimenti reali sono in salita, e non solo negli Stati Uniti ma ovunque, viste le interdipendenze globali sui mercati.
Le ricadute sono molteplici: ad esempio, i paesi emergenti rischiano (anzi no, è già in atto) un sudden stop, cioè un dietrofront di capitali esteri, che drena riserve valutarie, a volte sino al punto da spingere le banche centrali ad aumentare i tassi, strozzando la propria congiuntura. Ma anche in Eurozona potrebbero succedere cose spiacevoli. Intanto, e lo ripetiamo a distanza di giorni dal primo avvertimento, il fatto che (per ora) lo spread tra Btp e Bund sia stabile tende a perdere di significato. Quello che ora conta è il fatto che il rendimento dei Btp stia salendo, e con esso anche l’onere per il nostro Tesoro. Non qualcosa di eclatante, fatti due conti: ipotizzando un rinnovo annuale di circa 300 miliardi di euro (un settimo dello stock totale di debito italiano), un aumento di un punto percentuale sul costo di emissione significa un aumento di 3 miliardi di euro di servizio del debito. Nulla di impraticabile. Ma l’aumento dei rendimenti causa perdite alle banche che detengono quei titoli di stato in portafoglio, e rischia di portare a nuovi problemi in un sistema creditizio che è ancora imballato e causa credit crunch, qui da noi.
Più in generale, avere rendimenti reali in ascesa e non avere alla base di ciò una ripresa economica non è mai una congiuntura salutare, per una economia prostrata quale è la nostra. Del resto, questo accade quando i flussi finanziari dominano le economie nazionali, e ci si rende presto conto che la ricerca di causalità tra scelte nazionali di policy e andamento dei mercati rischia di diventare una forma di cartomanzia. Se al rialzo dei rendimenti reali, in attesa di una ripresa che al momento nessuno vede (e che anche negli Stati Uniti non appare così vigorosa), aggiungete il crescente malessere dell’economia cinese, alle prese con quello che pare essere l’imminente scoppio di una bolla di credito, ed i paesi emergenti che (come detto) rischiano di essere travolti da deflussi finanziari fuori controllo, ecco che le ipotesi di ripresa diventano molto più sfumate e sfocate.
Motivo per il quale sarebbe utile che i nostri policy makers (si fa per dire) riuscissero a guardare un filo oltre il proprio ombelico e almeno realizzare (non potendo incidere sul corso degli eventi) quando e come lo scenario si modifica. Pare si chiami consapevolezza. Serve per evitare di discutere sul nulla, come invece accade da noi su base regolare. Essere abbattuti da una ripresa non nostra e forse neppure altrui è ironia di cui faremmo volentieri a meno.