Il filo del rasoio ed il crescente rischio impoverimento

Presentate oggi dal Centro Studi Confindustria le nuove previsioni macroeconomiche contenute in Scenari economici. E’ un documento molto interessante, anche per non specialisti, perché ricco di grafici di immediata comprensione. Alcuni di essi servono a mettere la parola fine sulla validità previsiva di alcune survey, ma quello lo sapevamo da tempo. C’è solo da sperare che il messaggio arrivi anche ai cocoriti della politica. Quanto al resto dell’analisi, l’unico termine che ci viene in mente è “drammatico”.

Andando per ordine di presentazione possiamo osservare che in Italia stiamo viaggiando a ritroso in una infernale macchina del tempo, visto che il Pil pro capite è tornato all’anno 1996, la produzione industriale addirittura al 1986, gli investimenti al 1994. Poi, i margini sono in grave sofferenza, in particolare nel manifatturiero, mentre la quota di valore aggiunto assorbita dal lavoro è in aumento.

Vi sono tre fattori, secondo il CSC, che congiurano nell’abbassare la crescita potenziale: il minore dinamismo del commercio estero, che nel post-crisi manifesta un andamento pressoché piatto (a causa anche di strategie di accorciamento a livello regionale delle catene di valore e del rimpatrio di produzioni, oltre che di protezionismo strisciante, secondo il Centro Studi Confindustria); gli investimenti che restano stagnanti perché persiste elevata incertezza sull’evoluzione della domanda; inoltre, la riduzione dei rapporti di indebitamento esercita una forte azione frenante sulla crescita, mentre il nuovo quadro regolatorio delle istituzioni creditizie contribuisce al credit crunch. Siamo ormai nell’era che Lawrence Summers ha definito della “stagnazione secolare”.

In Italia vi sono poi delle peculiarità, tutte negative. Ad esempio, e di questo occorre prendere nota e atto, “il maggiore ottimismo (o il minor pessimismo) di famiglie ed imprese non si traduce più automaticamente in comportamenti di spesa”. Ecco quindi la clamorosa divergenza tra fiducia delle famiglie ed andamento dei consumi: la prima occasionalmente in forte rialzo, i secondi agonizzanti. Stesso fenomeno riguarda la fiducia delle imprese che non si traduce in maggior investimenti. E poi, il leggendario superindice Ocse, che è ormai da buttare e presto non servirà più nemmeno ai politici per lanciare l’Ansa.

Per non rischiare di essere accusato di disfattismo, il Centro Studi Confindustria tenta di vedere anche qualche germoglio di positività, tra i quali si possono citare anche le misure della Bce, la ripresa degli indici dei direttori acquisti a livello globale, la crescita statunitense. Il problema è che si tratta di elementi che stanno già esercitando spinta ed al momento appare difficile ipotizzarne l’ulteriore accelerazione, come mostra ad esempio il fatto che gli indici dei direttori acquisti europei del mese di giugno, pubblicati ieri, mostrano una frenata dell’espansione, ora ai minimi da inizio anno e per paesi come la Francia segnalano una contrazione che sta diventando inquietante.

Poi ci sono i “venti contrari”, quali l’alta e crescente incidenza di disoccupati di lunga durata, tra i quali figurano sempre più soggetti in là con gli anni, maschi e del Nord Italia. Il grafico sulla crescita del tasso di risparmio dovreste conoscerlo, ve ne abbiamo parlato qui. Quando l’incertezza aumenta, cresce il risparmio precauzionale, e viene pure tosato in misura crescente dal fisco, il peggiore dei mondi possibili. La dimensione “politica” del rapporto CSC si coglie nella segnalazione che gli squilibri di partite correnti dell’Eurozona non sono ancora stati risolti. Questo è un punto controverso, visto che il surplus tedesco rispetto al resto dell’Eurozona si è sensibilmente ridotto negli ultimi anni e ci sono paesi, come la Francia, che continuano a perdere competitività in modo vistoso, oltre a non essere ancora passati dalla fase dell’aggiustamento tramite distruzione della domanda: il peggio pare dover ancora venire, quindi.

C’è una slide della relazione del CSC che illustra a colpo d’occhio la peculiarità di questa crisi infinita: le stime di crescita vengono sistematicamente rettificate al ribasso, e non solo nel nostro caso. Ma quali ricette per uscirne, quindi? Per il CSC serve aumentare il tasso di partecipazione alla forza lavoro, per “donne, ultrasessantenni e lavoratori non qualificati”. E qui avremmo dei seri dubbi, non nel principio in sé ma nella sua fattibilità nella attuale fase. Forse questo suggerimento serve ad occultare l’esigenza di una troncata epocale alle retribuzioni del resto della popolazione? E poi si invocano gli immancabili “investimenti” ma anche qui non ci è per nulla chiaro: quelli privati sono frenati dalla latitanza della domanda, oltre che dal credit crunch; quelli pubblici dallo stock del debito, almeno a livello nazionale. Parliamo quindi di investimenti infrastrutturali comunitari? Se si, ne parleranno per tutta l’estate, a Bruxelles e dintorni, ed il rischio che la montagna partorisca l’ennesimo topolino è piuttosto elevato.

Anche perché abbiamo perso anni accumulando debito come unica conseguenza di misure folli di austerità, ed ora abbiamo vincoli evidenti all’idea di creare ulteriore debito per cavarci dai guai. L’impressione è che siamo finiti in un angolo, come Eurozona. E l’Italia, per dirla con il centro studi guidato da Luca Paolazzi, cammina sul filo del rasoio. Per essere più precisi, su quello del dissesto. Che, detto in questo modo, non rende appieno l’idea delle conseguenze che si abbatteranno sulla vita di tutti noi. Del resto, se l’ultimo capitolo de “La cura letale” è stato intitolato “Torneremo poveri“, un motivo c’era. Ed è rimasto, rafforzandosi.

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